lunedì 12 maggio 2008

In galera

Non sono tra coloro che ritiene realisticamente ipotizzabile, nel breve periodo, la totale scomparsa del carcere.
Penso, nello stesso tempo, che sia una cosa buona e giusta operare quotidianamente per creare le condizioni (sociali e culturali) per il suo superamento.
Ognuno ha la libertà di impiegare il proprio tempo libero come meglio crede: qualcuno - a Verona - massacrando di botte un ragazzo colpevole di avere un aspetto troppo di sinistra.
Io ho altri gusti, meno neofascisti e più retrò.

Ritengo normale che una società si protegga dagli individui che in libertà si renderebbero protagonisti di omicidi, stupri ed altri delitti, e riconosco lo Stato come detentore legittimo del monopolio dell'uso della forza, che è giusto utilizzare per impedire crimini commessi da cittadini contro altri cittadini.
Il carcere va valutato in questo contesto, come strumento momentaneo di difesa dalla cattiveria.

Tuttavia sono all'opera determinati processi che, se non efficacemente compresi ed adeguatamente contrastati, rischiano di farci precipitare in una voragine di barbarie.
E' mia opinione che chi di fronte alla complessità del sociale si limita ad urlare "in galera in galera" in tutta evidenza non abbia mai avuto la sfortuna di trovarsi dalla parte sbagliata della toppa.
Oltre a peccare di empatia (qualità sempre più scarsa che se quotata sul mercato delle materie prime superebbe il prezzo del petrolio) questi individui hanno il merito di una condotta compiutamente irreprensibile, in un paese ove la fascia di ciò che viene considerato "reato" tende ad estendersi progressivamente.
E questo è uno dei primi aspetti del processo di cui sopra: condotte "non ortodosse" vengono derubricate come reati e chi le agisce è costretto ad entrare nel circuito penale, con tutto quello che ne deriva (l'etichetta, lo "stigma", la difficoltà conseguente a reinserirsi, a trovare lavoro, il sospetto preventivo anche nel circuito delle proprie amicizie, l'isolamento, l'accresciuta probabilità di mettere di nuovo in atto condotte "devianti").
Non è una buona società quella che incarcera chi si fuma uno spinello, e non è una buona società quella che mette in galera uno straniero perché privo di permesso di soggiorno: sono condotte che non procurano danni ad altre persone, non vi sono vittime, è per lo meno esagerato che si finisca dietro le sbarre (non è una pena commisurata al reato commesso semplicemente perché tali condotte non dovrebbero costituire reato).

Fermo restando il diritto di proteggersi e quindi di incarcerare chi si rende responsabile di atti criminali (specie se violenti), la buona società ha il dovere di operare perché il colpevole sia in seguito reinserito.
La pena è uno degli elementi - certo irrinunciabile - di un complesso di strumenti che deve essere tuttavia volto alla riabilitazione e al pieno reinserimento in società dell'individuo che ha compiuto un crimine, non deve avere il mero carattere di "vendetta" nei confronti del reo, pena lo spostare indietro le lancette della storia (e della civiltà) di qualche secolo.
La giustizia ha poco a che fare col giustizialismo, checché ne pensi Beppe Grillo, il giullare contrario alla pubblicazione dei redditi su internet.

Sulla scorta di ideologie che traggono la loro origine dai think thank più conservatori degli Stati Uniti nel valutare il fenomeno "crimine" si sono completamente persi di vista, negli ultimi decenni, i fattori sociali che possono aumentare (o diminuire) la probabilità che le persone si rendano responsabili di atti criminali.
Il delinquente, in parole povere, è considerato solo un delinquente, quello che ha fatto è solo colpa sua, si sbatta in carcere, si getti via la chiave, sia fatta così giustizia.
Chi si interroga sul perché quello specifico individuo abbia compiuto quello specifico crimine, e su cosa si sarebbe dovuto fare per evitarlo (oltre al delirio di videocamere e telecamere che ci perseguitano violando ogni possibile intimità senza servire a niente) nel migliore dei casi viene accusato di essere troppo buono, nel peggiore di offendere la memoria delle vittime.
Non è automatico, ma è molto probabile che l'estrema povertà e la miseria nel senso più ampio del termine (sia economica che culturale), siano dei buoni fertilizzanti per il terreno del crimine, e che sarebbe preferibile - per una società che abbia davvero cura di se stessa - aumentare il benessere dei cittadini come strumento efficace di prevenzione.

A tal riguardo studiosi come Loic Wacquant hanno bene messo in evidenza come vi sia un rapporto inversamente proporzionale tra "sociale" e "penale".
Il ragionamento fatto dallo studioso si basa sull'analisi della società americana, ma le conclusioni calzano perfettamente anche per il contesto europeo (che sembra provare, sia detto per inciso, un sottile piacere nell'importare da oltreoceano le caratteristiche più detestabili).
Parallelamente alla diminuzione delle risorse investite nel Welfare si è assistito negli Usa ad un progressivo aumento della popolazione carceraria, e Wacquant - a cui rimando - mostra con grande chiarezza come i due fenomeni siano intimamente correlati.
Pochi negli Stati Uniti hanno tratto da questo fenomeno qualche beneficio, tranne naturalmente i manager ed i principali azionisti delle aziende che si occupano di costruzione di nuovi penitenziari, uno dei business più remunerativi del terzo millennio.
A rimetterci le migliaia di persone - si noti bene in stragrande maggioranza appartenenti alle cosiddette "minoranze etniche" - che affollano oggi le carceri statunitensi e che forse, se adeguatamente supportate nei momenti di difficoltà, non avrebbero commesso alcun crimine (sempre se effettivamente colpevoli del reato loro contestato, dato il numero crescente di persone rimesse in libertà dopo anni di carcere perché riconosciute - tardivamente - innocenti).

In conclusione: sono stato (e resto) assolutamente favorevole alla promulgazione dell'indulto: lo ritengo uno dei pochi atti dignitosi assunti dal Parlamento nella precedente legislatura.
Sono convinto che la civiltà di un paese si misuri anche in rapporto allo stato delle proprie carceri: se è giusto che un individuo paghi per la colpa che ha commesso non è giusto che viva come un animale, costretto in celle sempre più affollate, in condizioni igieniche spesso spaventose, senza adeguata assistenza sanitaria.
L'indulto ha indubbiamente migliorato la qualità di vita nelle carceri italiane, il nostro paese ne ha guadagnato in civiltà, ogni sincero democratico dovrebbe rallegrarsene.

Non è pensabile che si "reagisca" all'eventuale aumento degli individui riconosciuti colpevoli di qualche reato con la costruzione di nuove carceri, perché si entrerebbe in un circolo vizioso.
Mi si perdoni la brutalità del paragone, ma avverrebbe quello che sta già accadendo nell'ambito del trattamento dei rifiuti.
Una volta che si sono sostenuti gli ingenti costi per la realizzazione di un termovalorizzatore si ha la necessità di farlo funzionare, ergo: si ha un continuo bisogno di quantità ingenti di rifiuti, pena la non profittabilità economica dell'investimento.
Si perde quindi la "convenienza" ad investire in politiche "alternative" tese ad aumentare, ad esempio, la quantità di raccolta differenziata, per provvedere al riciclaggio ed al riuso anziché all'incenerimento.
Con tutta la cautela di questo mondo, penso che l'analogia possa reggere: una volta che ho definito come reati comportamenti semplicemente "non ortodossi", una volta che ho - contemporaneamente - diminuito le risorse investite nel "sociale", constatato il cospicuo aumento del numero di persone condannate, investire nella costruzione di nuove carceri significa rendere le politiche alternative progressivamente meno convenienti, ed infine trattare il detenuto come una merce funzionale al perpetuarsi del sistema.
Non è un bel mondo quello che si annuncia, a noi decidere se insistere verso la catastrofe o recuperare il pò di umano che resta.