martedì 30 gennaio 2007
Il nostro elettorato su alcuni temi è piuttosto sensibile
Nel piccolo paesello, ieri sera, consiglio comunale aperto in occasione delle iniziative previste per il giorno della memoria.
Il dibattito è stato molto bello e – a tratti – commovente.
Intendo per commovente un aspetto del quotidiano che suscita coinvolgimento emotivo, empatia, immedesimazione.
Così è stato, almeno per me (ma molti hanno condiviso questo sentimento, non bisogna sottovalutare l’umanità, a volte affiora).
Una signora ebrea, figlia di deportati, non è riuscita a terminare il suo intervento-testimonianza: ricordare le vicissitudini del padre e della madre le è risultato evidentemente troppo doloroso.
“Credetemi – ha detto – alcune volte ce la faccio. Stavolta non ha funzionato neppure l’escamotage al quale di solito ricorro”.
Nel bel mezzo del suo intervento – infatti – già colta dalle prime avvisaglie dell’insostenibile, la signora si era interrotta, aveva estratto dalla sua borsetta un foglio di carta ed aveva iniziato a leggerne il contenuto: era la bolletta dell’enel.
Queste emozioni non sono state condivise da cinque consiglieri, quattro di destra (tre fascisti di alleanza nazionale e uno di alternativa sociale) ed uno di centrosinistra.
I primi quattro sono giustificati di per sé (sono fascisti) l’altro (o l’altra) “aveva una visita”.
Ai presenti è rimasto tuttavia il dubbio che il democratico personaggio non condividesse sino in fondo la scelta dei relatori.
Passi per un’ebrea figlia di ebrei. Ma che ci facevano un omosessuale ed uno zingaro?
Si era forse considerata fino in fondo “l’opportunità” di tale iniziativa?
“Il nostro elettorato, su alcuni temi, è piuttosto sensibile”.
Il dibattito è stato molto bello e – a tratti – commovente.
Intendo per commovente un aspetto del quotidiano che suscita coinvolgimento emotivo, empatia, immedesimazione.
Così è stato, almeno per me (ma molti hanno condiviso questo sentimento, non bisogna sottovalutare l’umanità, a volte affiora).
Una signora ebrea, figlia di deportati, non è riuscita a terminare il suo intervento-testimonianza: ricordare le vicissitudini del padre e della madre le è risultato evidentemente troppo doloroso.
“Credetemi – ha detto – alcune volte ce la faccio. Stavolta non ha funzionato neppure l’escamotage al quale di solito ricorro”.
Nel bel mezzo del suo intervento – infatti – già colta dalle prime avvisaglie dell’insostenibile, la signora si era interrotta, aveva estratto dalla sua borsetta un foglio di carta ed aveva iniziato a leggerne il contenuto: era la bolletta dell’enel.
Queste emozioni non sono state condivise da cinque consiglieri, quattro di destra (tre fascisti di alleanza nazionale e uno di alternativa sociale) ed uno di centrosinistra.
I primi quattro sono giustificati di per sé (sono fascisti) l’altro (o l’altra) “aveva una visita”.
Ai presenti è rimasto tuttavia il dubbio che il democratico personaggio non condividesse sino in fondo la scelta dei relatori.
Passi per un’ebrea figlia di ebrei. Ma che ci facevano un omosessuale ed uno zingaro?
Si era forse considerata fino in fondo “l’opportunità” di tale iniziativa?
“Il nostro elettorato, su alcuni temi, è piuttosto sensibile”.
sabato 27 gennaio 2007
D'Alema Condolcezza
Capisco che fare il ministro degli esteri sia attività estremamente complessa, e che mediazioni e compromessi siano inevitabili.
La diplomazia, per essere tale, rifugge dagli integralismi.
Tuttavia, le parole del nostro ministro degli esteri Massimo d’Alema “il ritiro dall’Afghanistan è semplicemente impensabile” mi appaiono davvero poco politiche, e questo è molto strano per un uomo che si vanta di essere un fine stratega.
Che cosa è la politica, infatti, se non la pratica (anche) dell’impensabile per raggiungere ciò che è possibile?
Fino a qualche mese fa pure il ritiro dall’Iraq sarebbe apparso impensabile. A quei tempi il presidente del Consiglio era Berlusconi, ma “Condolcezza Rice” era già quella che è oggi, anche se D’Alema non andava ai suoi briefing.
Eppure dall’Iraq abbiamo tolto le tende, e nessuno – mi pare – sente la nostra mancanza.
Ho dei pregiudizi – lo confesso – su Massimo D’Alema, anzi, ad essere più precisi, ho un preciso giudizio su questo personaggio che anima le vicende della sinistra(?) italiana sin da quando reputò al contrario non soltanto pensabile ma anche praticabile bombardare i civili serbi.
Non lo espliciterò qui questo giudizio, perché sono un uomo elegante che non ama ricorrere al turpiloquio.
Dirò semplicemente che non mi sta affatto simpatico e che anche quando per sbaglio ci azzecca – come forse sul Libano – non riesco ad apprezzarlo fino in fondo.
E’ come se recitasse una parte che non lo convince, e suona stonato.
Sembra molto più Massimo d’Alema quando mostra i muscoli, va a cena con la Rice, si compiace dei suoi ringraziamenti e discetta su ciò che è pensabile e ciò che non lo è.
Che in Afghanistan vi sia una guerra voluta dalla Junta golpista- fascista che continua a governare negli Stati Uniti sembra non disturbarlo più di tanto.
La diplomazia, per essere tale, rifugge dagli integralismi.
Tuttavia, le parole del nostro ministro degli esteri Massimo d’Alema “il ritiro dall’Afghanistan è semplicemente impensabile” mi appaiono davvero poco politiche, e questo è molto strano per un uomo che si vanta di essere un fine stratega.
Che cosa è la politica, infatti, se non la pratica (anche) dell’impensabile per raggiungere ciò che è possibile?
Fino a qualche mese fa pure il ritiro dall’Iraq sarebbe apparso impensabile. A quei tempi il presidente del Consiglio era Berlusconi, ma “Condolcezza Rice” era già quella che è oggi, anche se D’Alema non andava ai suoi briefing.
Eppure dall’Iraq abbiamo tolto le tende, e nessuno – mi pare – sente la nostra mancanza.
Ho dei pregiudizi – lo confesso – su Massimo D’Alema, anzi, ad essere più precisi, ho un preciso giudizio su questo personaggio che anima le vicende della sinistra(?) italiana sin da quando reputò al contrario non soltanto pensabile ma anche praticabile bombardare i civili serbi.
Non lo espliciterò qui questo giudizio, perché sono un uomo elegante che non ama ricorrere al turpiloquio.
Dirò semplicemente che non mi sta affatto simpatico e che anche quando per sbaglio ci azzecca – come forse sul Libano – non riesco ad apprezzarlo fino in fondo.
E’ come se recitasse una parte che non lo convince, e suona stonato.
Sembra molto più Massimo d’Alema quando mostra i muscoli, va a cena con la Rice, si compiace dei suoi ringraziamenti e discetta su ciò che è pensabile e ciò che non lo è.
Che in Afghanistan vi sia una guerra voluta dalla Junta golpista- fascista che continua a governare negli Stati Uniti sembra non disturbarlo più di tanto.
domenica 21 gennaio 2007
Vicenza, Opera, i Rom e la Nato
Leggo, nell’unico quotidiano che valga la pena acquistare sacrificando uno dei cinque caffè della giornata (il Manifesto) un appropriato articolo di Manuela Cartosio.
Lo cito nei suoi punti più significativi:
“Opera-Vicenza. Da una parte residenti scatenati, sul filo del pogrom, contro i rom. Dall’altra una lotta corale e pacifica contro il raddoppio della base Nato. La contemporaneità delle due vicende induce qualche sgradevole considerazione. Pur nell’abissale diversità, hanno un elemento in comune: il territorio. La difesa del proprio spazio, del luogo in cui si vive, non è di per sé cosa buona e giusta”.
E ancora più avanti:
“..settanta “zingari” parcheggiati temporaneamente a Vicenza, o in un paese della Val di Susa, sarebbero accolti meglio che a Opera?”.
La domanda è in tutta evidenza retorica, e la risposta suggerita è “no”: gli zingari starebbero sulle scatole sia ai cittadini di Vicenza che a quelli di Venaus. Il pregiudizio antirom è purtoppo assai radicato, direi pressoché universale, i motivi cercheremo di approfondirli in altri post.
Ha ragione la signora Cartosio, la difesa del proprio territorio non sempre è cosa buona e giusta, verrebbe da dire che la luce di ogni battaglia risplende a seconda del motivo per cui è condotta.
“Noi” le facciamo per costruire una società più giusta, civile e solidale, “loro” l’inverso.
Il problema è quando i noi ed i loro si mescolano, in un caleidoscopio di opposti e contrari che sollecita ulteriori riflessioni: la realtà è infinitamente più complessa rispetto ad ogni sua interpretazione.
Questo non significa che non sia possibile un ragionamento scientifico intorno alle società ed alle dinamiche che le attraversano, ma ogni riflessione deve assumere come costitutiva la certezza della propria insufficienza: la realtà trabocca, inevitabilmente, e scivola via – malefico serpente - quando pensi di averla costretta – per sempre – entro le gabbie del tuo sistema.
Sia ad Opera che a Vicenza le cronache ci raccontano (schematizzo) di comitati anti-rom e anti-Nato politicamente piuttosto eterogenei.
Occupiamoci del primo corno del problema.
Sono del parere che qualsiasi sia la cittadina in cui si realizzasse un referendum intorno al quesito fondamentale: “vuoi tu un campo rom?” vedrebbe la maggioranza dei cittadini votare per il no (e spero di essere smentito).
E allora, come la mettiamo con la questione della partecipazione, il ragionamento – giustissimo peraltro – che nessuna decisione può essere presa senza la preventiva condivisione del progetto con le comunità di riferimento e la sua successiva accettazione?
Di fronte ad una vittoria dei no, dove li metteremmo questi rom?
Primo: nessun progetto che riguardi i rom viene preventivamente discusso con la popolazione locale, perché si ha paura che il progetto morirebbe sul nascere.
Non me la sento di affermare che questo timore sia privo di una sua consistenza, tuttavia o la questione della partecipazione la si affronta dall’inizio alla fine oppure l’intero ragionamento è monco.
Secondo: il quesito nasconde una realtà, i rom appunto – che sarebbero l’oggetto del referendum – non voterebbero (al pari dei militari americani, peraltro, con la sostanziale differenza che questi ultimi godono almeno in patria di alcuni diritti, tra cui quelli politici, i primi sono in una condizione di assoluta extraterritorialità, nel senso che sono “fuori” da ogni territorio e perciò privi di ogni diritto).
Terzo: il problema è mal posto.
Si vuol parlare di integrazione dei rom?
Prima dei referendum locali occorrerebbe un passaggio a livello nazionale: il riconoscimento dei rom come minoranza e la conseguente attribuzione agli stessi di un livello minimo di diritti, spendibili perché riconosciuti per legge.
Stabilito il principio che i rom hanno il diritto a stare qui – senza il quale non si va da alcuna parte - la risposta praticabile non è certo quella dei campi, situati di solito nei pressi delle discariche, quasi a stabilire un’offensiva analogia tra uomini, donne, vecchi e bambini da una parte e rifiuti dall’altra.
Molti Rom provengono dalla Romania, ove abitavano in normali condomini, ne sono stati scacciati quando il crollo del comunismo ha dato la stura a pregiudizi che covavano da tempo: l’immagine del coperchio che salta sopra una pentola che bolle penso sia quella più adatta.
E’ necessario trovare le case ove alloggiarli: leggo che le famiglie rom non accettano di essere “disperse” nel territorio. La soluzione più appropriata consisterebbe allora nel costruire villaggi rispettosi delle loro tradizioni, come mi sembra sia avvenuto in Portogallo ad opera del genio dell’architetto Alvaro Siza e della illuminata amministrazione della città di Evora.
Questa soluzione si trascinerebbe inevitabilmente dietro molte polemiche e l’ostilità della popolazione locale: “perché costruire le case per gli zingari quando siamo “noi” a non averle?”.
Quindi, o attraverso un ragionamento comune con i rom li si convince che debbono abitare non solo in condomini diversi ma anche in città diverse, e rimane comunque il problema di trovare alloggi liberi, oppure si trovano le risorse necessarie per attenuare il risentimento degli autoctoni, ovvero, in estrema sintesi, alloggi per tutti coloro che ne hanno bisogno, romanes o italiani che siano.
Qui torniamo, ancora una volta, alla questione delle risorse: come e da chi vengono prodotte, come e da chi vengono reperite, come e da chi vengono impiegate.
E allora Marx diviene inevitabile.
Lo cito nei suoi punti più significativi:
“Opera-Vicenza. Da una parte residenti scatenati, sul filo del pogrom, contro i rom. Dall’altra una lotta corale e pacifica contro il raddoppio della base Nato. La contemporaneità delle due vicende induce qualche sgradevole considerazione. Pur nell’abissale diversità, hanno un elemento in comune: il territorio. La difesa del proprio spazio, del luogo in cui si vive, non è di per sé cosa buona e giusta”.
E ancora più avanti:
“..settanta “zingari” parcheggiati temporaneamente a Vicenza, o in un paese della Val di Susa, sarebbero accolti meglio che a Opera?”.
La domanda è in tutta evidenza retorica, e la risposta suggerita è “no”: gli zingari starebbero sulle scatole sia ai cittadini di Vicenza che a quelli di Venaus. Il pregiudizio antirom è purtoppo assai radicato, direi pressoché universale, i motivi cercheremo di approfondirli in altri post.
Ha ragione la signora Cartosio, la difesa del proprio territorio non sempre è cosa buona e giusta, verrebbe da dire che la luce di ogni battaglia risplende a seconda del motivo per cui è condotta.
“Noi” le facciamo per costruire una società più giusta, civile e solidale, “loro” l’inverso.
Il problema è quando i noi ed i loro si mescolano, in un caleidoscopio di opposti e contrari che sollecita ulteriori riflessioni: la realtà è infinitamente più complessa rispetto ad ogni sua interpretazione.
Questo non significa che non sia possibile un ragionamento scientifico intorno alle società ed alle dinamiche che le attraversano, ma ogni riflessione deve assumere come costitutiva la certezza della propria insufficienza: la realtà trabocca, inevitabilmente, e scivola via – malefico serpente - quando pensi di averla costretta – per sempre – entro le gabbie del tuo sistema.
Sia ad Opera che a Vicenza le cronache ci raccontano (schematizzo) di comitati anti-rom e anti-Nato politicamente piuttosto eterogenei.
Occupiamoci del primo corno del problema.
Sono del parere che qualsiasi sia la cittadina in cui si realizzasse un referendum intorno al quesito fondamentale: “vuoi tu un campo rom?” vedrebbe la maggioranza dei cittadini votare per il no (e spero di essere smentito).
E allora, come la mettiamo con la questione della partecipazione, il ragionamento – giustissimo peraltro – che nessuna decisione può essere presa senza la preventiva condivisione del progetto con le comunità di riferimento e la sua successiva accettazione?
Di fronte ad una vittoria dei no, dove li metteremmo questi rom?
Primo: nessun progetto che riguardi i rom viene preventivamente discusso con la popolazione locale, perché si ha paura che il progetto morirebbe sul nascere.
Non me la sento di affermare che questo timore sia privo di una sua consistenza, tuttavia o la questione della partecipazione la si affronta dall’inizio alla fine oppure l’intero ragionamento è monco.
Secondo: il quesito nasconde una realtà, i rom appunto – che sarebbero l’oggetto del referendum – non voterebbero (al pari dei militari americani, peraltro, con la sostanziale differenza che questi ultimi godono almeno in patria di alcuni diritti, tra cui quelli politici, i primi sono in una condizione di assoluta extraterritorialità, nel senso che sono “fuori” da ogni territorio e perciò privi di ogni diritto).
Terzo: il problema è mal posto.
Si vuol parlare di integrazione dei rom?
Prima dei referendum locali occorrerebbe un passaggio a livello nazionale: il riconoscimento dei rom come minoranza e la conseguente attribuzione agli stessi di un livello minimo di diritti, spendibili perché riconosciuti per legge.
Stabilito il principio che i rom hanno il diritto a stare qui – senza il quale non si va da alcuna parte - la risposta praticabile non è certo quella dei campi, situati di solito nei pressi delle discariche, quasi a stabilire un’offensiva analogia tra uomini, donne, vecchi e bambini da una parte e rifiuti dall’altra.
Molti Rom provengono dalla Romania, ove abitavano in normali condomini, ne sono stati scacciati quando il crollo del comunismo ha dato la stura a pregiudizi che covavano da tempo: l’immagine del coperchio che salta sopra una pentola che bolle penso sia quella più adatta.
E’ necessario trovare le case ove alloggiarli: leggo che le famiglie rom non accettano di essere “disperse” nel territorio. La soluzione più appropriata consisterebbe allora nel costruire villaggi rispettosi delle loro tradizioni, come mi sembra sia avvenuto in Portogallo ad opera del genio dell’architetto Alvaro Siza e della illuminata amministrazione della città di Evora.
Questa soluzione si trascinerebbe inevitabilmente dietro molte polemiche e l’ostilità della popolazione locale: “perché costruire le case per gli zingari quando siamo “noi” a non averle?”.
Quindi, o attraverso un ragionamento comune con i rom li si convince che debbono abitare non solo in condomini diversi ma anche in città diverse, e rimane comunque il problema di trovare alloggi liberi, oppure si trovano le risorse necessarie per attenuare il risentimento degli autoctoni, ovvero, in estrema sintesi, alloggi per tutti coloro che ne hanno bisogno, romanes o italiani che siano.
Qui torniamo, ancora una volta, alla questione delle risorse: come e da chi vengono prodotte, come e da chi vengono reperite, come e da chi vengono impiegate.
E allora Marx diviene inevitabile.
domenica 14 gennaio 2007
Colte citazioni per marcare la propria distinzione
"Le opinioni dell'umanità tendenzialmente hanno consacrato le realtà esistenti, dichiarando ciò che ancora non esiste o pericoloso o inattuabile"
John Stuart Mill
John Stuart Mill
Rom a(ll) Opera
Non conosco nessun romanes, se per conoscenza si intende la partecipazione empatica alle altrui vicende che è possibile soltanto attraverso la continuità, nel tempo, del legame e per ciò forza la sua intensità.
La mia conoscenza è perciò indiretta, deriva dai libri che ho letto e dalla scelta di campo che ho fatto: mi rifiuto di essere cieco e non mi accontento delle storielle che alcuni meschini ci raccontano.
Con il lavoro che faccio ho avuto modo di parlare più volte con un uomo ed una donna di origine rom. Un’origine peraltro, nel loro caso, dissimulata. Rientra appieno nelle strategie di mascheramento che la nostra società rende necessarie. In alcuni casi per mantenere la propria rispettabilità, in altri – come nel caso dei soggetti in questione – per sopravvivere.
Ma questa conoscenza vive all’interno di un rapporto che non è paritario: sono io un’autorità – ed il termine è cosi supponente che sono perfino a restio ad usarlo – sono loro soggetti di questa autorità.
Amministratore io, amministrati loro.
Alla condizione “normale” di differenziazione di funzione, nel caso dei rom, come in quello degli stranieri in generale, si affianca – ed è predominante – la gerarchizzazione: in definitiva io ho l’impressione di poter contare qualcosa, che la mia voce possa essere ascoltata, loro hanno la certezza di non avere alcun potere.
Al massimo, possono sperare nella bontà di chi li circonda.
Ma “chi” li circonda è spesso una massa impaurita e perciò ostile: piccoli bianchi (occidentali) sballottati dai mutevoli flussi del mercato e del capitale. Nel regno dell’incertezza la certezza della propria differenza dai selvaggi, dagli spossessati e dai miseri è difesa con le unghie e con i denti: se questa si attenua si precipita nella disperazione.
Il razzismo è nelle classi popolari, e anche gli ultimi episodi di cronaca ci raccontano questa verità: a bruciare i campi rom, ad appiccare materialmente i fuochi, sono persone come noi, del popolo, privi di mezzi – se soli nella propria individualità – per incidere nella realtà.
Le regole di questa realtà sono stabilite in luoghi lontani, da persone che non hanno ricevuto alcun mandato popolare, e che perciò – in una società realmente democratica e non in questo inganno che stiamo vivendo – non avrebbero alcuna legittimità ad operare, a prendere decisioni se non per se stessi.
Quando una grande azienda licenzia migliaia di lavoratori la borsa premia la scelta, ed il titolo sale: questo semplice fatto mostra più di ogni altro complicato ragionamento che c’è del marcio in Danimarca.
Tuttavia non possiamo ignorare la realtà, il dato di fatto nella sua crudezza: a bruciare le tende dei rom ad Opera non sono stati certo dei ricchi imprenditori capi d’azienda, o dei colti scrittori schierati a destra, o dei brillanti giornalisti dei quotidiani nazionali, ma uomini e donne dei ceti popolari, qualunque sia la loro nuova composizione.
Ma il razzismo è dei potenti, che organizzano la ribellione in sommossa anziché in rivoluzione, in pogrom contro i più deboli anziché in rivolta contro i detentori degli ingiusti privilegi.
La organizzano fornendo le necessarie argomentazioni: la lotta decisiva non è quella contro la miseria, ma quella contro il misero, trasformato nella figura del parassita.
Il popolo è oggi trasformato in massa indistinta, folla, e l’humus è nel quotidiano: le trasmissioni televisive con donne seminude, i quiz scemi, ed i settimanali di gossip godono di grande fortuna, poiché esauriscono la quasi totalità dell’offerta.
Il popolo è indifeso ed ignorante perché – in definitiva – è solo, e la libertà, la vera libertà che è quella da ogni oppressione, può nascere soltanto dalla conoscenza e dalla consapevolezza, che possono crescere soltanto dentro ed attraverso uno sforzo collettivo.
I potenti non hanno certo alcun interesse a dotare le classi subalterne delle conoscenze necessarie ad interrogare il proprio destino e quello dei loro simili, non per cattiveria, ma semplicemente perché non è per loro conveniente: se vi è una speranza questa consiste ancora nell’auto-organizzazione delle classi popolari, nella forza del numero (che è una delle risorse se non la più decisiva per gli spossessati) e nella spregiudicatezza dell’autodidatta.
Un tempo, innanzi alla grande emigrazione dal sud d’Italia, le forze della sinistra che coincidevano con il partito comunista, guidavano la produzione del simbolico nell’ottica non solo di favorire la convivenza, ma il conflitto: non sono terroni, si diceva, ma lavoratori, come noi.
Se vi farete convincere che siete diversi, i veri diversi – quelli che detengono il potere e che vi sfruttano – avranno vinto.
Certo, non fu tutto rose e fiori, ma un pensiero forte a guidare l’azione c’era, e forse i tempi erano meno barbari di quelli odierni, anche se a guardarsi bene indietro sono pochi i tempi da rimpiangere.
Ora ad opporre un discorso alla canea razzista montante vi sono uomini e donne di buona volontà, stretti nei movimenti (che nel nostro caso sono le associazioni antirazziste) e quel che resta delle forme istituzionali della politica, naturalmente a sinistra.
Non mi piace dirlo: una risicata minoranza, spesso litigiosa per e su altre questioni, che spesso si disperde – o è del tutto assente – quando si organizzano assemblee popolari e comitati anti-rom.
Non fa piacere a nessuno constatare la propria minorità.
Nessuno è innocente, e quelle bocche spalancate ad invocare la cacciata dei rom raccontano anche della nostra inadeguatezza.
La mia conoscenza è perciò indiretta, deriva dai libri che ho letto e dalla scelta di campo che ho fatto: mi rifiuto di essere cieco e non mi accontento delle storielle che alcuni meschini ci raccontano.
Con il lavoro che faccio ho avuto modo di parlare più volte con un uomo ed una donna di origine rom. Un’origine peraltro, nel loro caso, dissimulata. Rientra appieno nelle strategie di mascheramento che la nostra società rende necessarie. In alcuni casi per mantenere la propria rispettabilità, in altri – come nel caso dei soggetti in questione – per sopravvivere.
Ma questa conoscenza vive all’interno di un rapporto che non è paritario: sono io un’autorità – ed il termine è cosi supponente che sono perfino a restio ad usarlo – sono loro soggetti di questa autorità.
Amministratore io, amministrati loro.
Alla condizione “normale” di differenziazione di funzione, nel caso dei rom, come in quello degli stranieri in generale, si affianca – ed è predominante – la gerarchizzazione: in definitiva io ho l’impressione di poter contare qualcosa, che la mia voce possa essere ascoltata, loro hanno la certezza di non avere alcun potere.
Al massimo, possono sperare nella bontà di chi li circonda.
Ma “chi” li circonda è spesso una massa impaurita e perciò ostile: piccoli bianchi (occidentali) sballottati dai mutevoli flussi del mercato e del capitale. Nel regno dell’incertezza la certezza della propria differenza dai selvaggi, dagli spossessati e dai miseri è difesa con le unghie e con i denti: se questa si attenua si precipita nella disperazione.
Il razzismo è nelle classi popolari, e anche gli ultimi episodi di cronaca ci raccontano questa verità: a bruciare i campi rom, ad appiccare materialmente i fuochi, sono persone come noi, del popolo, privi di mezzi – se soli nella propria individualità – per incidere nella realtà.
Le regole di questa realtà sono stabilite in luoghi lontani, da persone che non hanno ricevuto alcun mandato popolare, e che perciò – in una società realmente democratica e non in questo inganno che stiamo vivendo – non avrebbero alcuna legittimità ad operare, a prendere decisioni se non per se stessi.
Quando una grande azienda licenzia migliaia di lavoratori la borsa premia la scelta, ed il titolo sale: questo semplice fatto mostra più di ogni altro complicato ragionamento che c’è del marcio in Danimarca.
Tuttavia non possiamo ignorare la realtà, il dato di fatto nella sua crudezza: a bruciare le tende dei rom ad Opera non sono stati certo dei ricchi imprenditori capi d’azienda, o dei colti scrittori schierati a destra, o dei brillanti giornalisti dei quotidiani nazionali, ma uomini e donne dei ceti popolari, qualunque sia la loro nuova composizione.
Ma il razzismo è dei potenti, che organizzano la ribellione in sommossa anziché in rivoluzione, in pogrom contro i più deboli anziché in rivolta contro i detentori degli ingiusti privilegi.
La organizzano fornendo le necessarie argomentazioni: la lotta decisiva non è quella contro la miseria, ma quella contro il misero, trasformato nella figura del parassita.
Il popolo è oggi trasformato in massa indistinta, folla, e l’humus è nel quotidiano: le trasmissioni televisive con donne seminude, i quiz scemi, ed i settimanali di gossip godono di grande fortuna, poiché esauriscono la quasi totalità dell’offerta.
Il popolo è indifeso ed ignorante perché – in definitiva – è solo, e la libertà, la vera libertà che è quella da ogni oppressione, può nascere soltanto dalla conoscenza e dalla consapevolezza, che possono crescere soltanto dentro ed attraverso uno sforzo collettivo.
I potenti non hanno certo alcun interesse a dotare le classi subalterne delle conoscenze necessarie ad interrogare il proprio destino e quello dei loro simili, non per cattiveria, ma semplicemente perché non è per loro conveniente: se vi è una speranza questa consiste ancora nell’auto-organizzazione delle classi popolari, nella forza del numero (che è una delle risorse se non la più decisiva per gli spossessati) e nella spregiudicatezza dell’autodidatta.
Un tempo, innanzi alla grande emigrazione dal sud d’Italia, le forze della sinistra che coincidevano con il partito comunista, guidavano la produzione del simbolico nell’ottica non solo di favorire la convivenza, ma il conflitto: non sono terroni, si diceva, ma lavoratori, come noi.
Se vi farete convincere che siete diversi, i veri diversi – quelli che detengono il potere e che vi sfruttano – avranno vinto.
Certo, non fu tutto rose e fiori, ma un pensiero forte a guidare l’azione c’era, e forse i tempi erano meno barbari di quelli odierni, anche se a guardarsi bene indietro sono pochi i tempi da rimpiangere.
Ora ad opporre un discorso alla canea razzista montante vi sono uomini e donne di buona volontà, stretti nei movimenti (che nel nostro caso sono le associazioni antirazziste) e quel che resta delle forme istituzionali della politica, naturalmente a sinistra.
Non mi piace dirlo: una risicata minoranza, spesso litigiosa per e su altre questioni, che spesso si disperde – o è del tutto assente – quando si organizzano assemblee popolari e comitati anti-rom.
Non fa piacere a nessuno constatare la propria minorità.
Nessuno è innocente, e quelle bocche spalancate ad invocare la cacciata dei rom raccontano anche della nostra inadeguatezza.
venerdì 5 gennaio 2007
welby
Il concetto di liberta varia a seconda dell’oggetto, è contingente come tutti gli affari umani.
Chi ragiona per assoluti o è in cattiva fede o è semplicemente uno sciocco.
Prendete per esempio il caso Welby, quell’uomo ridotto ad una larva che giace inerme su un letto, che implora di poter morire.
Potesse lo avrebbe già fatto, ma non può farlo, non ha più neppure un arto buono da utilizzare.
Non ha una mano per prendere una pistola e spararsi in testa e non ha più gambe per gettarsi da una finestra.
E poi perché dovrebbe scegliere modi così dolorosi e cruenti, quando la scienza (che non è il principio dell’apocalisse ma della speranza) ci avrebbe fornito strumenti più lievi, quando pure la morte può essere dolce?
Se non si è liberi di morire come si fa a dirsi liberi?
Eppure molti tra coloro che alzano la croce con la mano destra ed urlano contro il demone della laicità, e la mostruosità dell’eutanasia, molti dicono di amare la libertà.
Ed io sono portato a credergli.
Il delirio di un folle è sempre sincero visto dalla prospettiva del folle.
Libertà per il mercato, libertà per le merci, libertà per i profitti ad ogni costo (ed il costo umano è messo in conto e giustificato).
Sempre libertà sono.
Ho imparato a ragionare con sobrietà, a cercare collegamenti, a drizzare lo sguardo sopra la mia testa, ad interrogarmi senza posa fino a stancarmi.
Madre Teresa di Calcutta per molti era una santa.
Per me era solo una vecchia invasata che predicava la sofferenza come veicolo privilegiato per il Signore.
Preferisco Gino Strada, che le sofferenze cerca di lenirle sul serio, e non ha bisogno di nascondersi dietro alcun Dio per fare quello che fa: riparare corpi piagati dall’orrore della guerra.
Risuona nella vicenda del signor Welby un odore nauseabondo di sacrestia, e che ammorbi anche la politica - che dovrebbe essere una cosa seria e separata dai rosari - è un fatto increscioso, soprattutto nel 2006.
Badate bene, mentono quando dicono che l’eutanasia sarebbe un modo per legalizzare la morte data agli esseri giudicati superflui, ai vinti, ai malati, ai perdenti.
Sbaglierò, ma ho la sensazione che di questi non gliene importi un bel niente, tranne quando c’è da farsi pubblicità in tv per raggranellare qualche miliardo con l’otto per mille.
E’ una preoccupazione troppo laica quella per il destino degli ultimi.
E’ invece una questione di supremazia e di potere, che in definitiva è imporre la visione delle cose giudicata legittima.
Così, per essere liberi, dobbiamo farlo di nascosto: chi a fumarsi una canna, chi uomo ad amare un altro uomo, confidando tutti in un medico pietoso che (quando sarà il nostro turno) silente si rifiuti di dare al dolore altro indebito spazio.
Non sono privo di dubbi, e la sera alcune volte prima di addormentarmi mi piace pensare che pure qualcosa può esserci, perché no, di superiore e –la dirò grossa – di assoluto, di eterno e di divino.
Ma più mi guardo intorno e più scopro che questo qualcosa di divino ha molto a che fare con gli uomini e con le donne e poco con santa romana chiesa e devoti bigotti.
Chi ragiona per assoluti o è in cattiva fede o è semplicemente uno sciocco.
Prendete per esempio il caso Welby, quell’uomo ridotto ad una larva che giace inerme su un letto, che implora di poter morire.
Potesse lo avrebbe già fatto, ma non può farlo, non ha più neppure un arto buono da utilizzare.
Non ha una mano per prendere una pistola e spararsi in testa e non ha più gambe per gettarsi da una finestra.
E poi perché dovrebbe scegliere modi così dolorosi e cruenti, quando la scienza (che non è il principio dell’apocalisse ma della speranza) ci avrebbe fornito strumenti più lievi, quando pure la morte può essere dolce?
Se non si è liberi di morire come si fa a dirsi liberi?
Eppure molti tra coloro che alzano la croce con la mano destra ed urlano contro il demone della laicità, e la mostruosità dell’eutanasia, molti dicono di amare la libertà.
Ed io sono portato a credergli.
Il delirio di un folle è sempre sincero visto dalla prospettiva del folle.
Libertà per il mercato, libertà per le merci, libertà per i profitti ad ogni costo (ed il costo umano è messo in conto e giustificato).
Sempre libertà sono.
Ho imparato a ragionare con sobrietà, a cercare collegamenti, a drizzare lo sguardo sopra la mia testa, ad interrogarmi senza posa fino a stancarmi.
Madre Teresa di Calcutta per molti era una santa.
Per me era solo una vecchia invasata che predicava la sofferenza come veicolo privilegiato per il Signore.
Preferisco Gino Strada, che le sofferenze cerca di lenirle sul serio, e non ha bisogno di nascondersi dietro alcun Dio per fare quello che fa: riparare corpi piagati dall’orrore della guerra.
Risuona nella vicenda del signor Welby un odore nauseabondo di sacrestia, e che ammorbi anche la politica - che dovrebbe essere una cosa seria e separata dai rosari - è un fatto increscioso, soprattutto nel 2006.
Badate bene, mentono quando dicono che l’eutanasia sarebbe un modo per legalizzare la morte data agli esseri giudicati superflui, ai vinti, ai malati, ai perdenti.
Sbaglierò, ma ho la sensazione che di questi non gliene importi un bel niente, tranne quando c’è da farsi pubblicità in tv per raggranellare qualche miliardo con l’otto per mille.
E’ una preoccupazione troppo laica quella per il destino degli ultimi.
E’ invece una questione di supremazia e di potere, che in definitiva è imporre la visione delle cose giudicata legittima.
Così, per essere liberi, dobbiamo farlo di nascosto: chi a fumarsi una canna, chi uomo ad amare un altro uomo, confidando tutti in un medico pietoso che (quando sarà il nostro turno) silente si rifiuti di dare al dolore altro indebito spazio.
Non sono privo di dubbi, e la sera alcune volte prima di addormentarmi mi piace pensare che pure qualcosa può esserci, perché no, di superiore e –la dirò grossa – di assoluto, di eterno e di divino.
Ma più mi guardo intorno e più scopro che questo qualcosa di divino ha molto a che fare con gli uomini e con le donne e poco con santa romana chiesa e devoti bigotti.
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