Leggo, nell’unico quotidiano che valga la pena acquistare sacrificando uno dei cinque caffè della giornata (il Manifesto) un appropriato articolo di Manuela Cartosio.
Lo cito nei suoi punti più significativi:
“Opera-Vicenza. Da una parte residenti scatenati, sul filo del pogrom, contro i rom. Dall’altra una lotta corale e pacifica contro il raddoppio della base Nato. La contemporaneità delle due vicende induce qualche sgradevole considerazione. Pur nell’abissale diversità, hanno un elemento in comune: il territorio. La difesa del proprio spazio, del luogo in cui si vive, non è di per sé cosa buona e giusta”.
E ancora più avanti:
“..settanta “zingari” parcheggiati temporaneamente a Vicenza, o in un paese della Val di Susa, sarebbero accolti meglio che a Opera?”.
La domanda è in tutta evidenza retorica, e la risposta suggerita è “no”: gli zingari starebbero sulle scatole sia ai cittadini di Vicenza che a quelli di Venaus. Il pregiudizio antirom è purtoppo assai radicato, direi pressoché universale, i motivi cercheremo di approfondirli in altri post.
Ha ragione la signora Cartosio, la difesa del proprio territorio non sempre è cosa buona e giusta, verrebbe da dire che la luce di ogni battaglia risplende a seconda del motivo per cui è condotta.
“Noi” le facciamo per costruire una società più giusta, civile e solidale, “loro” l’inverso.
Il problema è quando i noi ed i loro si mescolano, in un caleidoscopio di opposti e contrari che sollecita ulteriori riflessioni: la realtà è infinitamente più complessa rispetto ad ogni sua interpretazione.
Questo non significa che non sia possibile un ragionamento scientifico intorno alle società ed alle dinamiche che le attraversano, ma ogni riflessione deve assumere come costitutiva la certezza della propria insufficienza: la realtà trabocca, inevitabilmente, e scivola via – malefico serpente - quando pensi di averla costretta – per sempre – entro le gabbie del tuo sistema.
Sia ad Opera che a Vicenza le cronache ci raccontano (schematizzo) di comitati anti-rom e anti-Nato politicamente piuttosto eterogenei.
Occupiamoci del primo corno del problema.
Sono del parere che qualsiasi sia la cittadina in cui si realizzasse un referendum intorno al quesito fondamentale: “vuoi tu un campo rom?” vedrebbe la maggioranza dei cittadini votare per il no (e spero di essere smentito).
E allora, come la mettiamo con la questione della partecipazione, il ragionamento – giustissimo peraltro – che nessuna decisione può essere presa senza la preventiva condivisione del progetto con le comunità di riferimento e la sua successiva accettazione?
Di fronte ad una vittoria dei no, dove li metteremmo questi rom?
Primo: nessun progetto che riguardi i rom viene preventivamente discusso con la popolazione locale, perché si ha paura che il progetto morirebbe sul nascere.
Non me la sento di affermare che questo timore sia privo di una sua consistenza, tuttavia o la questione della partecipazione la si affronta dall’inizio alla fine oppure l’intero ragionamento è monco.
Secondo: il quesito nasconde una realtà, i rom appunto – che sarebbero l’oggetto del referendum – non voterebbero (al pari dei militari americani, peraltro, con la sostanziale differenza che questi ultimi godono almeno in patria di alcuni diritti, tra cui quelli politici, i primi sono in una condizione di assoluta extraterritorialità, nel senso che sono “fuori” da ogni territorio e perciò privi di ogni diritto).
Terzo: il problema è mal posto.
Si vuol parlare di integrazione dei rom?
Prima dei referendum locali occorrerebbe un passaggio a livello nazionale: il riconoscimento dei rom come minoranza e la conseguente attribuzione agli stessi di un livello minimo di diritti, spendibili perché riconosciuti per legge.
Stabilito il principio che i rom hanno il diritto a stare qui – senza il quale non si va da alcuna parte - la risposta praticabile non è certo quella dei campi, situati di solito nei pressi delle discariche, quasi a stabilire un’offensiva analogia tra uomini, donne, vecchi e bambini da una parte e rifiuti dall’altra.
Molti Rom provengono dalla Romania, ove abitavano in normali condomini, ne sono stati scacciati quando il crollo del comunismo ha dato la stura a pregiudizi che covavano da tempo: l’immagine del coperchio che salta sopra una pentola che bolle penso sia quella più adatta.
E’ necessario trovare le case ove alloggiarli: leggo che le famiglie rom non accettano di essere “disperse” nel territorio. La soluzione più appropriata consisterebbe allora nel costruire villaggi rispettosi delle loro tradizioni, come mi sembra sia avvenuto in Portogallo ad opera del genio dell’architetto Alvaro Siza e della illuminata amministrazione della città di Evora.
Questa soluzione si trascinerebbe inevitabilmente dietro molte polemiche e l’ostilità della popolazione locale: “perché costruire le case per gli zingari quando siamo “noi” a non averle?”.
Quindi, o attraverso un ragionamento comune con i rom li si convince che debbono abitare non solo in condomini diversi ma anche in città diverse, e rimane comunque il problema di trovare alloggi liberi, oppure si trovano le risorse necessarie per attenuare il risentimento degli autoctoni, ovvero, in estrema sintesi, alloggi per tutti coloro che ne hanno bisogno, romanes o italiani che siano.
Qui torniamo, ancora una volta, alla questione delle risorse: come e da chi vengono prodotte, come e da chi vengono reperite, come e da chi vengono impiegate.
E allora Marx diviene inevitabile.
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1 commento:
Caro neoblogger, intanto in bocca al lupo x il tuo nuovo "gingillo". Per prima cosa un consiglio pratico, sii un po' più sintetico visto che il mezzo che utilizzi è di quelli che vive di velocità e immediatezza. Che dire sul tema specifico? A parte la mia personale simpatia per il popolo rom (e per tutti i popoli ingiustamente perseguitati), credo che in questo caso come in altri analoghi si scontrino due realtà entrambe ineluttabili: da un lato l'opinione popolare che, per quanto colma di pregiudizi e razzismo, ha un peso reale sulla vita della nazione e non si può non tenerne conto, e dall'altro l'innato impulso umano teso al miglioramento della società che non si arrende di fronte all'idea di accettare l'esistenza di disparità tanto grandi da costringere persino un popolo intero all'ostracismo, alla gogna o alla fuga. Io penso che più che stigmatizzare il pregiudizio che governerebbe le masse e considerarle ignoranti, arretrate o meschine occorrerebbe informare, coinvolgere, far partecipare il più alto numero di persone possibile alla condivisione della vita reale e ciò, temo. sia il compito più difficile. Come non considerare, nel caso in questione, l'opinione secolare di diffidenza e paura verso gli zingari mai veramente affrontata? Non dimenticherei di citare il fatto che, nonostante ognuno di noi si ritenga una persona libera, tutti siamo figli della cultura che ci ha formati e che ci accompagna nel corso della nostra vita. Questa cultura deve cominciare ad essere davvero e una volta per tutte patrimonio collettivo e non solo delle elitès, se non vogliamo che di volta in volta qualcuno ci convinca che esista un valido motivo per cui l'uomo si scontri con l'uomo. andrea
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