domenica 25 febbraio 2007
Per chi crede che Rifondazione sia colpevole
Vi espongo il pensiero di Paola Binetti, leader del partito della Margherita: "Andreotti ha dato il primato alla politica estera ma il discorso con cui giustifica il suo voto negativo può anche essere esteso ai Dico".
Avete festeggiato?
"A dire il vero era mercoledì delle ceneri. Abbiamo digiunato e abbiamo innanzitutto ringraziato il Padreterno perchè solo da lui poteva giungere una mano così inaspettata".
Resto in attesa di una dichiarazione di Massimo D'Alema: un Centro così non fa bene al paese.
sabato 24 febbraio 2007
Il compagno Follini
Dunque Napolitano ha deciso ed il buon vecchio Romanone torna alle camere dove ad attenderlo avrà fiducioso anche il compagno Follini, che ha dichiarato di non avere alcuna difficoltà a votare con Diliberto dopo che ha già votato con Calderoli.
Spero che non confonda le due coalizioni.
Spero che non confonda le due coalizioni.
venerdì 23 febbraio 2007
Rifondazione Comunista
Il momento non è certo dei migliori: anche se tutti i senatori di Rifondazione (tranne uno) hanno votato la mozione di politica estera del governo Prodi, è bastato un Turigliatto qualunque e siamo finiti tutti e per intero sul banco degli imputati.
Non sarà sufficiente manifestare il fine settimana, con il rischio che non ci sia più neppure il governo da sostenere (sulla decisione di Napolitano ho dei dubbi e non escludo niente).
Consiglio di serrare le fila che - sembrerà un pò fascista - ma è l'unica strategia che mi appare possibile per tentare di salvare il salvabile.
E di tenere lingua e nervi ben saldi.
Non sarà sufficiente manifestare il fine settimana, con il rischio che non ci sia più neppure il governo da sostenere (sulla decisione di Napolitano ho dei dubbi e non escludo niente).
Consiglio di serrare le fila che - sembrerà un pò fascista - ma è l'unica strategia che mi appare possibile per tentare di salvare il salvabile.
E di tenere lingua e nervi ben saldi.
giovedì 22 febbraio 2007
Pubblica ammenda
Debbo scusarmi, il mio post di ieri sera era troppo emotivo, ma in fin dei conti me lo posso permettere: è il mio blog, io non sono un senatore della Repubblica, ed il mio parere non è un voto decisivo per le sorti di un governo che non sarà il massimo ma neppure il peggiore tra quelli possibili.
Non mi appassiona la caccia al Turigliatto, in fin dei conti è solo un dilettante allo sbaraglio, ed io adoro i professionisti della politica.
Come Massimo D'Alema:
"E' sempre un errore lasciarsi trasportare dall'emozione nelle faccende politiche, quindi la prossima volta che Mr Genius dice "se andiamo sotto, tutti a casa" siete autorizzati a staccargli la spina".
Non mi appassiona la caccia al Turigliatto, in fin dei conti è solo un dilettante allo sbaraglio, ed io adoro i professionisti della politica.
Come Massimo D'Alema:
"E' sempre un errore lasciarsi trasportare dall'emozione nelle faccende politiche, quindi la prossima volta che Mr Genius dice "se andiamo sotto, tutti a casa" siete autorizzati a staccargli la spina".
mercoledì 21 febbraio 2007
Turigliatto e Rossi
Ci volevano proprio Turigliatto e Rossi, una scelta responsabile che avrà alcune positive conseguenze: il ritiro delle truppe italiane dall'Afghanistan, lo stop alla base militare di Vicenza, la chiusura dei Centri di Permanenza Temporanei, l'istituzione dei pacs, una riforma fiscale che redistribuirà risorse ai ceti meno abbienti, l'eliminazione del precariato ed il potenziamento della scuola pubblica.
Sono molto contento.
Ora esco, prima però mi ficco il cactus di casa dentro al culo, giusto per stare ancora meglio.
Sono molto contento.
Ora esco, prima però mi ficco il cactus di casa dentro al culo, giusto per stare ancora meglio.
martedì 20 febbraio 2007
Tutto chiarito (sono perciò sollevato)
Sono sollevato, oggi, dopo che – ieri – si sono chiariti i rapporti con la Chiesa.
Dunque, se i rapporti sono chiari, da oggi:
a. La Chiesa pagherà l’Ici sui propri immobili, come fa il sottoscritto, che di immobili ne ha solo uno (gravato da un mutuo).
b. Gli insegnanti di religione saranno pagati dal Vescovo, che provvederà alla loro nomina e alla loro conseguente remunerazione.
c. Non vi saranno più ingerenze nella vita politica dello Stato Italiano, secondo il principio Libera Chiesa in Libero Stato (tutto maiuscolo per aumentare l’enfasi).
Da ultimo ma non per ultimo da oggi spero di avere la possibilità di seguire un telegiornale senza il quotidiano collegamento con il Vaticano ed il Pastore Tedesco (tutto maiuscolo) che lo governa.
Altrimenti cosa è stato chiarito?
Dunque, se i rapporti sono chiari, da oggi:
a. La Chiesa pagherà l’Ici sui propri immobili, come fa il sottoscritto, che di immobili ne ha solo uno (gravato da un mutuo).
b. Gli insegnanti di religione saranno pagati dal Vescovo, che provvederà alla loro nomina e alla loro conseguente remunerazione.
c. Non vi saranno più ingerenze nella vita politica dello Stato Italiano, secondo il principio Libera Chiesa in Libero Stato (tutto maiuscolo per aumentare l’enfasi).
Da ultimo ma non per ultimo da oggi spero di avere la possibilità di seguire un telegiornale senza il quotidiano collegamento con il Vaticano ed il Pastore Tedesco (tutto maiuscolo) che lo governa.
Altrimenti cosa è stato chiarito?
sabato 17 febbraio 2007
I veri terroristi
Ricevo da un mio caro (il più caro) cattivo maestro.
E volentieri pubblico.
Proprio perché concordo, mi permetterei di aggiungere, brevemente: non si ha
più neanche il sospetto che il terrorismo vero non ha a che fare con lo
spirito critico, il dissenso e la capacità di esprimerlo, il rifiuto
dell'acquiescenza: tutti elementi che in questi ultimi anni, con periodiche
accelerazioni, sono stati tollerati poco e a volte aggrediti con estrema
violenza. Tra le doti del buon terrorista, come hanno insegnato i
ciclostilati interni delle Brigate rosse, c'è l'obbedienza, l'adeguarsi,
l'accettazione di una vita militarizzata e scandita da orologi e calendari
altrui, la repressione di ogni dissenso nei confronti dell'"organizzazione".
Tutti elementi che i brigatisti hanno avuto in comune con chi li condanna.
Per questo, però, è necessario approfondire una teoria (e un metodo) del
conflitto e della sua gestione nonviolenta.
Nelle pratiche quotidiane. Tutte.
E volentieri pubblico.
Proprio perché concordo, mi permetterei di aggiungere, brevemente: non si ha
più neanche il sospetto che il terrorismo vero non ha a che fare con lo
spirito critico, il dissenso e la capacità di esprimerlo, il rifiuto
dell'acquiescenza: tutti elementi che in questi ultimi anni, con periodiche
accelerazioni, sono stati tollerati poco e a volte aggrediti con estrema
violenza. Tra le doti del buon terrorista, come hanno insegnato i
ciclostilati interni delle Brigate rosse, c'è l'obbedienza, l'adeguarsi,
l'accettazione di una vita militarizzata e scandita da orologi e calendari
altrui, la repressione di ogni dissenso nei confronti dell'"organizzazione".
Tutti elementi che i brigatisti hanno avuto in comune con chi li condanna.
Per questo, però, è necessario approfondire una teoria (e un metodo) del
conflitto e della sua gestione nonviolenta.
Nelle pratiche quotidiane. Tutte.
giovedì 15 febbraio 2007
Non mi dirai che sei d'accordo
In questi giorni militare in Rifondazione Comunista significa che chiunque può rivolgerti gli interrogativi più offensivi senza vergognarsene.
Vengono arrestate 15 persone – che per quanto mi riguarda restano tutte innocenti fino al terzo grado di giudizio – e anche tu divieni in qualche modo sospetto e sospettabile, se non altro di tacita collusione.
“Non mi dirai che sei d’accordo?”, è domanda ricorrente, quasi che tentare di interrogarsi sul perché di un fenomeno sia una pratica terroristica quanto lo sparare a dei professori in bicicletta.
Se provi a ragionare in termini di “permeabilità delle istituzioni” al conflitto, e alla necessità – per la stessa tenuta democratica – di rappresentare gli interessi “di tutti” (compresi quelli dei lavoratori), vi è chi sbrigativamente conclude con un “Ma allora vuoi pure giustificarli?”.
Non se ne esce, se non confidando nella medicina della partecipazione (che è alla luce del sole) come più efficace antidoto al terrorismo (che prospera nella clandestinità).
Ma anche questo è un discorso troppo complicato e difficilmente comprensibile per chi vuole solo una condanna e si accontenta di buttare via le chiavi della cella dopo averci rinchiuso i soliti mostri.
Vengono arrestate 15 persone – che per quanto mi riguarda restano tutte innocenti fino al terzo grado di giudizio – e anche tu divieni in qualche modo sospetto e sospettabile, se non altro di tacita collusione.
“Non mi dirai che sei d’accordo?”, è domanda ricorrente, quasi che tentare di interrogarsi sul perché di un fenomeno sia una pratica terroristica quanto lo sparare a dei professori in bicicletta.
Se provi a ragionare in termini di “permeabilità delle istituzioni” al conflitto, e alla necessità – per la stessa tenuta democratica – di rappresentare gli interessi “di tutti” (compresi quelli dei lavoratori), vi è chi sbrigativamente conclude con un “Ma allora vuoi pure giustificarli?”.
Non se ne esce, se non confidando nella medicina della partecipazione (che è alla luce del sole) come più efficace antidoto al terrorismo (che prospera nella clandestinità).
Ma anche questo è un discorso troppo complicato e difficilmente comprensibile per chi vuole solo una condanna e si accontenta di buttare via le chiavi della cella dopo averci rinchiuso i soliti mostri.
martedì 13 febbraio 2007
L'impegno è una gran rottura di coglioni
Noto, con una certa preoccupazione ed altrettanta insofferenza, come un atteggiamento di progressivo disimpegno stia contagiando alcuni stimabili compagni.
Nessuno costringe alcuno alla militanza, ma se l'obiettivo è quello di "cambiare il mondo", ebbene c'è da rompersi i coglioni, e anche parecchio, nell'immediato quotidiano, altrimenti il mondo da sè non cambia (se non in peggio).
Non vi è niente di male, figurarsi, nel riflusso nel privato (in televisione vi sono ottimi serial, come Dr House, e poi c'è la champions league, ed il nostro contesto abbonda di localini alla moda dove bere una birra in compagnia), l'importante è essere conseguenti, ed evitare invece di rompere i coglioni al sottoscritto con battute fuori luogo e stucchevoli moralismi.
Mi hanno stancato veramente sia le prime che i secondi.
Nessuno costringe alcuno alla militanza, ma se l'obiettivo è quello di "cambiare il mondo", ebbene c'è da rompersi i coglioni, e anche parecchio, nell'immediato quotidiano, altrimenti il mondo da sè non cambia (se non in peggio).
Non vi è niente di male, figurarsi, nel riflusso nel privato (in televisione vi sono ottimi serial, come Dr House, e poi c'è la champions league, ed il nostro contesto abbonda di localini alla moda dove bere una birra in compagnia), l'importante è essere conseguenti, ed evitare invece di rompere i coglioni al sottoscritto con battute fuori luogo e stucchevoli moralismi.
Mi hanno stancato veramente sia le prime che i secondi.
domenica 11 febbraio 2007
Un pesantissimo intervento anti-religioni
E’ buona norma confessare un pregiudizio prima di iniziare l’analisi: credo che – con buona probabilità – dio non esista e che le religioni siano un affascinante artificio edificato dagli uomini per rendere più tollerabile la morte, di sé e delle persone amate, e la terribile prospettiva del nulla, così terribile che è persino impensabile la sua rappresentazione.
Ecco quindi venire in soccorso la fantasia, la capacità creativa dell’uomo che è in effetti qualcosa di divino senza dio.
Vi confesso tuttavia che spero di sbagliarmi, dato che la prospettiva di vivere in eterno, sia in paradiso che all’inferno (non al purgatorio che è troppo di centro), mi appare tutto sommato stimolante.
Partirei da una ricognizione dell’esistente, ovvero di ciò che sono oggi le religioni presenti in Occidente, quelle maggioritarie, quelle di cui ci “interessa” il dialogo: cattolicesimo ed islam.
I buddisti infatti, che pure mi stanno simpatici perché non rivendicano alcuna egemonia (e Pomaia è un luogo incantevole dove si possono gustare ottimi pranzi vegetariani), ed i Valdesi a cui per spocchia (e vicinanza) intellettuale destino il mio otto per mille, sono poco più che associazioni del dopolavoro ferroviario, mentre gli ebrei – già storicamente poco presenti in Italia – sono stati decimati dal nazifascismo e sono oggi poche migliaia di persone, buone per essere tirate da una parte o dall’altra a seconda di come la si pensi sullo Stato di Israele.
Sia il cattolicesimo che l’islam perseguono, ritengo consapevolmente (a livello di elites), un progetto di dominazione - dei corpi, delle idee, delle società - a cui ritengo necessario opporre la forza e la resistenza del pensiero laico e progressista.
Il dialogo tra cattolicesimo ed islam è, in questa particolare fase storica, il dialogo tra due totalitarismi, e si vi è salvezza per gli uomini e per le donne di questo mondo sta oggi nel rifiutarli entrambi, sostituendo nella pratica al dialogo interreligioso il dialogo tra persone libere (come può essere una persona libera oggi, ovvero all’interno di un quadro economico ed ideologico che la condiziona pesantemente).
Intendiamoci, non sto accusando i credenti di queste confessioni di essere nella loro totalità dei pericolosi reazionari: esistono molte persone sinceramente progressiste e nello stesso tempo profondamente religiose, con cui è piacevole intrattenersi e coltivare la speranza di una riforma.
Ma una rondine non fa primavera e di certo i messaggi provenienti dalle gerarchie cattoliche ed islamiche possono essere ricompresi nella categoria dei sistemi di pensiero reazionari (oggettivamente alleati dei movimenti politici schierati a destra).
Le comunità di base cattoliche, e gli islamici progressisti – che pure ci sono – sono del tutto minoritari e qualche “prete di frontiera” (alla Zappolini o alla Santoro per prendere due esempi a noi vicini) non valgono la brutale repressione e la conseguente sconfitta del movimento della teologia della liberazione.
Riporto, come pretesto ai fini del nostro discorso, uno dei passaggi più significativi dell’intervento di papa Ratzinger in occasione della “Giornata mondiale della pace”, celebratasi il 1 gennaio 2007:
“Il diritto alla vita e alla libera espressione della propria fede in Dio non è in potere dell’uomo. La pace ha bisogno che si stabilisca un chiaro confine tra ciò che è disponibile e ciò che non lo è: saranno così evitate intromissioni inaccettabili in quel patrimonio di valori che è proprio dell’uomo in quanto tale.
Per quanto concerne il diritto alla vita, è doveroso denunciare lo scempio che di essa si fa nella nostra società: accanto alle vittime dei conflitti armati, del terrorismo e di svariate forme di violenza, ci sono le morti silenziose provocate dalla fame, dall’aborto, dalla sperimentazione sugli embrioni e dall’eutanasia”.
E’ chiara – e inaccettabile - l’analogia esplicita che si stabilisce tra una donna che decide di non far nascere il proprio figlio (o Piergiorgio Welby che implora di poter morire) ed un terrorista tagliagole (tutti condannati, implicitamente, alla dannazione), ed è difficile non notare l’intima contraddizione con il passaggio successivo in cui il “pastore tedesco” si sofferma sulla condizione femminile, riservando un attacco neppure troppo nascosto all’islam:
“Penso allo sfruttamento di donne trattate come oggetti e alle tante forme di mancanza di rispetto per la loro dignità; penso anche - in un contesto diverso – alle visioni antropologiche persistenti in alcune culture, che riservano alla donna una collocazione ancora fortemente sottomessa all’arbitrio dell’uomo, con conseguenze lesive per la sua dignità di persona e per l’esercizio delle stesse libertà fondamentali”.
Il controllo sul corpo della donna, la colpevolizzazione e la condanna della libertà individuale di per sè, rendono al contrario sinistramente simili il cattolicesimo e l’islam odierni.
Nell’islam è tutto apparentemente più evidente: il corpo velato della donna cosa altro è se non il segno più visibile della dominazione maschile e dell’imposizione di una religione patriarcale?
Su questo tema esiste un dibattito piuttosto ricco, di cui è impossibile dare conto nel poco spazio di questo intervento.
Vi è chi sostiene che sia del tutto legittimo che una donna decida di coprirsi parti del proprio corpo e che l’attenzione ossessiva nei confronti del problema del velo celi intenti discriminatori nei confronti degli immigrati oggi presenti nei paesi europei.
La vista di una suora – in effetti - non sembra turbarci più di tanto, (eppure ha il corpo ed una parte del volto nascosti) e non suscita appassionati dibattiti, e di certo vi è un’evidente disparità di trattamento nei confronti delle donne che liberamente abbracciano i precetti della religione islamica.
Sono argomentazioni difficilmente contestabili e per molti versi condivisibili.
Tuttavia quando l’imam locale (e quindi non un semplice fedele ma il “colto” rappresentante locale della comunità islamica) in conversazione privata mi rivela che sua moglie indossa “liberamente” il burqa per proteggersi dagli sguardi degli altri uomini, e dalla possibilità di una violenza suscitata dallo scatenamento dei “naturali” istinti maschili alla vista di un ginocchio scoperto, confesso il mio turbamento, e mi chiedo quanto libera sia quella libera scelta, e se al contrario la libertà dalla religione (in questo caso islamica) non sia la condizione primaria per una liberazione che sia veramente tale.
Che dire poi dell’atteggiamento nei confronti degli omosessuali?
In alcuni paesi islamici se sorpresi in “pratiche” omosessuali si può essere condannati a morte.
La chiesa cattolica si “limita” a definire contro natura i rapporti tra persone dello stesso sesso, invitando i poveri gay a vivere privatamente e con riserbo la loro malattia, astenendosi da pratiche sessuali e sopportando cristianamente la sventura loro occorsa, (in questi giorni il Vaticano si è schierato addirittura contro il serial televisivo “Un medico in famiglia” a causa della presenza di una “normalissima” coppia gay).
Sorprenderebbe quindi, date le molteplici similitudini, un’eventuale mancanza di dialogo tra le due principali religioni monoteiste concorrenti.
Sono convinto invece che quello che si sta svolgendo sotto i nostri occhi sia uno stucchevole gioco delle parti e che attraverso il dialogo interreligioso (che come tutti i dialoghi è composto da momenti di scontro, di confronto e di accordo) si giungerà infine ad un’equa e concordata ripartizione delle anime (e degli interessi) secondo le zone geografiche, come ai tempi della guerra fredda e della contrapposizione tra le due potenze nucleari, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica.
E’ un gioco che non mi piace e a cui non intendo partecipare.
Il dialogo interreligioso, parliamoci chiaro, è diventato molto di moda qui da noi anche in seguito alla presenza in Italia di numerosi immigrati musulmani.
In passato illustri prelati quali il cardinale Biffi hanno teorizzato la via preferenziale per gli immigrati di religione cattolica discettando sulla presunta non integrabilità dei cittadini di religione musulmana.
Il fatto è che molti immigrati “scoprono” la “loro” religione, la religione degli antenati, proprio una volta giunti in Italia.
Partono indifferenti alla questione religiosa e si trasformano in uomini di fede una volta giunti a destinazione (paradossalmente, si potrebbe affermare, “divengono” refrettari all’integrazione).
La chiusura all’interno della comunità nazionale di riferimento cementata da un comune credo religioso è l’esito più probabile dell’impatto difficoltoso con la società di approdo, impatto oggi “mediato” dalla crisi del welfare nazionale, dalle contraddizioni del modo di produzione dominante (precarietà, disoccupazione, sottoccupazione) dalla forza di ideologie xenofobe propagandate dai vari imprenditori dell’odio (partiti politici e mezzi di comunicazione di massa).
La religione è un patrimonio identitario sempre disponibile, pronto ad essere utilizzato e re-inventato, e funzionale in questo caso ad un modello di integrazione subalterna.
Accettando la logica dell’integrazione (e del dialogo) tra culture, comunità e - in definitiva - tra diverse religioni a rimetterci sono gli individui costretti in un’identità monolitica attraverso cui rivendicare i propri diritti ed il proprio inserimento.
Si rinuncia alla pluralità della propria identità, alla molteplicità delle proprie appartenenze, per abbracciare un unicum totalitario e monolitico, soprattutto se questo è l’unico modo disponibile per rivendicare i propri diritti.
Ma è un percorso in cui si perde qualcosa.
A rimetterci sono i singoli individui, abbracciati sino a soffocare da vescovi ed imam.
A rimetterci sono le nostre società, che si segmentano progressivamente in varie religioni-culture-comunità scarsamente democratiche al loro interno, disposte gerarchicamente, il cui inter-dialogo è condotto da ristrette elites autonominatesi tali, depositarie della verità, che agiscono in nome e per conto dei loro fedeli.
Le osservazioni a tal proposito di Amartya Sen risultano, in conclusione, decisive (A.Sen, “Identità e violenza”, Laterza, 2006):
“Il mondo (..) è visto (..) come una federazione di religioni o di civiltà, ignorando così tutti gli altri modi in cui gli esseri umani considerano se stessi (..).
La stessa persona può essere, senza la minima contraddizione, di cittadinanza americana, di origine caraibica, con ascendenze africane, cristiana, progressista, donna, vegetariana, maratoneta, storica, insegnante, romanziera, femminista, eterosessuale, sostenitrice dei diritti dei gay e delle lesbiche, amante del teatro, militante ambientalista, appassionata di tennis, musicista jazz (..).
Ognuna di queste collettività, a cui questa persona appartiene simultaneamente, le conferisce una determinata identità. Nessuna di esse può essere considerata l’unica identità o l’unica categoria di appartenenza della persona(..).
Quando le prospettive di buoni rapporti tra esseri umani diversi sono viste (come sempre più spesso accade) principalmente in termini di “amicizia tra civiltà” o di “dialogo tra gruppi religiosi”, o di “relazioni amichevoli tra comunità diverse” (ignorando i moltissimi, diversi modi in cui gli individui si relazionano fra di loro), i progetti per la pace vengono subordinati a un approccio che “miniaturizza” gli esseri umani(..).
La speranza di armonia nel mondo contemporaneo risiede in gran parte in una comprensione più chiara delle pluralità dell’identità umana, e nel riconoscimento che tali pluralità sono trasversali e rappresentano un antidoto a una separazione netta lungo una linea divisoria fortificata ed impenetrabile”.
Ecco quindi venire in soccorso la fantasia, la capacità creativa dell’uomo che è in effetti qualcosa di divino senza dio.
Vi confesso tuttavia che spero di sbagliarmi, dato che la prospettiva di vivere in eterno, sia in paradiso che all’inferno (non al purgatorio che è troppo di centro), mi appare tutto sommato stimolante.
Partirei da una ricognizione dell’esistente, ovvero di ciò che sono oggi le religioni presenti in Occidente, quelle maggioritarie, quelle di cui ci “interessa” il dialogo: cattolicesimo ed islam.
I buddisti infatti, che pure mi stanno simpatici perché non rivendicano alcuna egemonia (e Pomaia è un luogo incantevole dove si possono gustare ottimi pranzi vegetariani), ed i Valdesi a cui per spocchia (e vicinanza) intellettuale destino il mio otto per mille, sono poco più che associazioni del dopolavoro ferroviario, mentre gli ebrei – già storicamente poco presenti in Italia – sono stati decimati dal nazifascismo e sono oggi poche migliaia di persone, buone per essere tirate da una parte o dall’altra a seconda di come la si pensi sullo Stato di Israele.
Sia il cattolicesimo che l’islam perseguono, ritengo consapevolmente (a livello di elites), un progetto di dominazione - dei corpi, delle idee, delle società - a cui ritengo necessario opporre la forza e la resistenza del pensiero laico e progressista.
Il dialogo tra cattolicesimo ed islam è, in questa particolare fase storica, il dialogo tra due totalitarismi, e si vi è salvezza per gli uomini e per le donne di questo mondo sta oggi nel rifiutarli entrambi, sostituendo nella pratica al dialogo interreligioso il dialogo tra persone libere (come può essere una persona libera oggi, ovvero all’interno di un quadro economico ed ideologico che la condiziona pesantemente).
Intendiamoci, non sto accusando i credenti di queste confessioni di essere nella loro totalità dei pericolosi reazionari: esistono molte persone sinceramente progressiste e nello stesso tempo profondamente religiose, con cui è piacevole intrattenersi e coltivare la speranza di una riforma.
Ma una rondine non fa primavera e di certo i messaggi provenienti dalle gerarchie cattoliche ed islamiche possono essere ricompresi nella categoria dei sistemi di pensiero reazionari (oggettivamente alleati dei movimenti politici schierati a destra).
Le comunità di base cattoliche, e gli islamici progressisti – che pure ci sono – sono del tutto minoritari e qualche “prete di frontiera” (alla Zappolini o alla Santoro per prendere due esempi a noi vicini) non valgono la brutale repressione e la conseguente sconfitta del movimento della teologia della liberazione.
Riporto, come pretesto ai fini del nostro discorso, uno dei passaggi più significativi dell’intervento di papa Ratzinger in occasione della “Giornata mondiale della pace”, celebratasi il 1 gennaio 2007:
“Il diritto alla vita e alla libera espressione della propria fede in Dio non è in potere dell’uomo. La pace ha bisogno che si stabilisca un chiaro confine tra ciò che è disponibile e ciò che non lo è: saranno così evitate intromissioni inaccettabili in quel patrimonio di valori che è proprio dell’uomo in quanto tale.
Per quanto concerne il diritto alla vita, è doveroso denunciare lo scempio che di essa si fa nella nostra società: accanto alle vittime dei conflitti armati, del terrorismo e di svariate forme di violenza, ci sono le morti silenziose provocate dalla fame, dall’aborto, dalla sperimentazione sugli embrioni e dall’eutanasia”.
E’ chiara – e inaccettabile - l’analogia esplicita che si stabilisce tra una donna che decide di non far nascere il proprio figlio (o Piergiorgio Welby che implora di poter morire) ed un terrorista tagliagole (tutti condannati, implicitamente, alla dannazione), ed è difficile non notare l’intima contraddizione con il passaggio successivo in cui il “pastore tedesco” si sofferma sulla condizione femminile, riservando un attacco neppure troppo nascosto all’islam:
“Penso allo sfruttamento di donne trattate come oggetti e alle tante forme di mancanza di rispetto per la loro dignità; penso anche - in un contesto diverso – alle visioni antropologiche persistenti in alcune culture, che riservano alla donna una collocazione ancora fortemente sottomessa all’arbitrio dell’uomo, con conseguenze lesive per la sua dignità di persona e per l’esercizio delle stesse libertà fondamentali”.
Il controllo sul corpo della donna, la colpevolizzazione e la condanna della libertà individuale di per sè, rendono al contrario sinistramente simili il cattolicesimo e l’islam odierni.
Nell’islam è tutto apparentemente più evidente: il corpo velato della donna cosa altro è se non il segno più visibile della dominazione maschile e dell’imposizione di una religione patriarcale?
Su questo tema esiste un dibattito piuttosto ricco, di cui è impossibile dare conto nel poco spazio di questo intervento.
Vi è chi sostiene che sia del tutto legittimo che una donna decida di coprirsi parti del proprio corpo e che l’attenzione ossessiva nei confronti del problema del velo celi intenti discriminatori nei confronti degli immigrati oggi presenti nei paesi europei.
La vista di una suora – in effetti - non sembra turbarci più di tanto, (eppure ha il corpo ed una parte del volto nascosti) e non suscita appassionati dibattiti, e di certo vi è un’evidente disparità di trattamento nei confronti delle donne che liberamente abbracciano i precetti della religione islamica.
Sono argomentazioni difficilmente contestabili e per molti versi condivisibili.
Tuttavia quando l’imam locale (e quindi non un semplice fedele ma il “colto” rappresentante locale della comunità islamica) in conversazione privata mi rivela che sua moglie indossa “liberamente” il burqa per proteggersi dagli sguardi degli altri uomini, e dalla possibilità di una violenza suscitata dallo scatenamento dei “naturali” istinti maschili alla vista di un ginocchio scoperto, confesso il mio turbamento, e mi chiedo quanto libera sia quella libera scelta, e se al contrario la libertà dalla religione (in questo caso islamica) non sia la condizione primaria per una liberazione che sia veramente tale.
Che dire poi dell’atteggiamento nei confronti degli omosessuali?
In alcuni paesi islamici se sorpresi in “pratiche” omosessuali si può essere condannati a morte.
La chiesa cattolica si “limita” a definire contro natura i rapporti tra persone dello stesso sesso, invitando i poveri gay a vivere privatamente e con riserbo la loro malattia, astenendosi da pratiche sessuali e sopportando cristianamente la sventura loro occorsa, (in questi giorni il Vaticano si è schierato addirittura contro il serial televisivo “Un medico in famiglia” a causa della presenza di una “normalissima” coppia gay).
Sorprenderebbe quindi, date le molteplici similitudini, un’eventuale mancanza di dialogo tra le due principali religioni monoteiste concorrenti.
Sono convinto invece che quello che si sta svolgendo sotto i nostri occhi sia uno stucchevole gioco delle parti e che attraverso il dialogo interreligioso (che come tutti i dialoghi è composto da momenti di scontro, di confronto e di accordo) si giungerà infine ad un’equa e concordata ripartizione delle anime (e degli interessi) secondo le zone geografiche, come ai tempi della guerra fredda e della contrapposizione tra le due potenze nucleari, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica.
E’ un gioco che non mi piace e a cui non intendo partecipare.
Il dialogo interreligioso, parliamoci chiaro, è diventato molto di moda qui da noi anche in seguito alla presenza in Italia di numerosi immigrati musulmani.
In passato illustri prelati quali il cardinale Biffi hanno teorizzato la via preferenziale per gli immigrati di religione cattolica discettando sulla presunta non integrabilità dei cittadini di religione musulmana.
Il fatto è che molti immigrati “scoprono” la “loro” religione, la religione degli antenati, proprio una volta giunti in Italia.
Partono indifferenti alla questione religiosa e si trasformano in uomini di fede una volta giunti a destinazione (paradossalmente, si potrebbe affermare, “divengono” refrettari all’integrazione).
La chiusura all’interno della comunità nazionale di riferimento cementata da un comune credo religioso è l’esito più probabile dell’impatto difficoltoso con la società di approdo, impatto oggi “mediato” dalla crisi del welfare nazionale, dalle contraddizioni del modo di produzione dominante (precarietà, disoccupazione, sottoccupazione) dalla forza di ideologie xenofobe propagandate dai vari imprenditori dell’odio (partiti politici e mezzi di comunicazione di massa).
La religione è un patrimonio identitario sempre disponibile, pronto ad essere utilizzato e re-inventato, e funzionale in questo caso ad un modello di integrazione subalterna.
Accettando la logica dell’integrazione (e del dialogo) tra culture, comunità e - in definitiva - tra diverse religioni a rimetterci sono gli individui costretti in un’identità monolitica attraverso cui rivendicare i propri diritti ed il proprio inserimento.
Si rinuncia alla pluralità della propria identità, alla molteplicità delle proprie appartenenze, per abbracciare un unicum totalitario e monolitico, soprattutto se questo è l’unico modo disponibile per rivendicare i propri diritti.
Ma è un percorso in cui si perde qualcosa.
A rimetterci sono i singoli individui, abbracciati sino a soffocare da vescovi ed imam.
A rimetterci sono le nostre società, che si segmentano progressivamente in varie religioni-culture-comunità scarsamente democratiche al loro interno, disposte gerarchicamente, il cui inter-dialogo è condotto da ristrette elites autonominatesi tali, depositarie della verità, che agiscono in nome e per conto dei loro fedeli.
Le osservazioni a tal proposito di Amartya Sen risultano, in conclusione, decisive (A.Sen, “Identità e violenza”, Laterza, 2006):
“Il mondo (..) è visto (..) come una federazione di religioni o di civiltà, ignorando così tutti gli altri modi in cui gli esseri umani considerano se stessi (..).
La stessa persona può essere, senza la minima contraddizione, di cittadinanza americana, di origine caraibica, con ascendenze africane, cristiana, progressista, donna, vegetariana, maratoneta, storica, insegnante, romanziera, femminista, eterosessuale, sostenitrice dei diritti dei gay e delle lesbiche, amante del teatro, militante ambientalista, appassionata di tennis, musicista jazz (..).
Ognuna di queste collettività, a cui questa persona appartiene simultaneamente, le conferisce una determinata identità. Nessuna di esse può essere considerata l’unica identità o l’unica categoria di appartenenza della persona(..).
Quando le prospettive di buoni rapporti tra esseri umani diversi sono viste (come sempre più spesso accade) principalmente in termini di “amicizia tra civiltà” o di “dialogo tra gruppi religiosi”, o di “relazioni amichevoli tra comunità diverse” (ignorando i moltissimi, diversi modi in cui gli individui si relazionano fra di loro), i progetti per la pace vengono subordinati a un approccio che “miniaturizza” gli esseri umani(..).
La speranza di armonia nel mondo contemporaneo risiede in gran parte in una comprensione più chiara delle pluralità dell’identità umana, e nel riconoscimento che tali pluralità sono trasversali e rappresentano un antidoto a una separazione netta lungo una linea divisoria fortificata ed impenetrabile”.
giovedì 8 febbraio 2007
Carlo Giuliani: l'esecuzione
Giuliani, Raciti ed il Giornale
Ai miei amici che tanto si sono scandalizzati (più per una frase detta in un dopo cena che per il contenuto del mio post, suppongo): leggetevi questo bell'articolo pubblicato su Il Giornale il 5 febbraio 2007.
E fatevi un'idea del motivo per cui uno diventa larrabbiato.
La mamma di Carlo Giuliani ora pensi a mamma Raciti
di Ruggero Guarini - lunedì 05 febbraio 2007, 07:00
Gentile senatrice Haidi Giuliani, mi consenta di sottoporle una proposta un po’ audace: inviti la regista Francesca Comencini, sua grande amica, a prendere un tè nel suo ufficio a palazzo Madama e le suggerisca, con tutto il tatto richiesto dal delicato argomento che mi permetto di prospettarle, di dedicare alla mamma di Filippo Raciti, l’agente ammazzato venerdì allo stadio Massimino di Catania, un film simile a quello con cui la medesima vivace cineasta, ormai circa sei anni fa, volle onorare il suo dolore di madre orbata del proprio eroico figliolo caduto a piazza Alimonda sul fronte della resistenza alla sbirraglia dello Stato dei padroni.
Il titolo di questo nuovo film potrebbe ricalcare fedelmente quello del film precedente. Se quello si chiamava Carlo Giuliani, ragazzo, questo potrebbe chiamarsi Il ragazzo Filippo Raciti. E come al centro di quello figurava la sua intervista, così al centro di questo dovrebbe figurare un’intervista alla mamma dell’agente siciliano. Ma forse, per imprimere anche al nuovo film lo stesso stile sentimentale e morale di quello precedente, sarebbe forse meglio che la Comencini intervistasse nuovamente lei. Giacché soltanto lei potrebbe onorare la memoria del povero Raciti con la stessa impareggiabile dolcezza con cui, in quella sua memorabile performance audiovisiva, seppe dar voce alla sua potente passione di madre politicamente turbata e commossa mediante un’impeccabile ricostruzione del pacifico percorso del suo Carlo all’interno del corteo con cui quel giorno, a Genova, lui e i suoi compagnucci del movimento antiglobale espressero la loro mansueta volontà di lotta anti-imperiale fino al momento in cui quell’angioletto venne proditoriamente assassinato dal carabiniere Placanica mentre lui tentava eroicamente di accopparlo con un estintore.
Fra l’altro molte battute di quella vecchia intervista potrebbero essere facilmente adattate al nuovo film. La più commovente di tutte potrebbe anzi restare pressoché immutata. «Si è detto – lei disse – che Carlo fosse un disadattato. Non lo era, ma anche fosse? È un motivo sufficiente per ammazzare la gente?». Dovrebbe soltanto tradurla così: «Si è detto che Filippo fosse uno sbirro. Magari lo era, ma allora? Be’, sembra che questo, per il mio Carlo, fosse un motivo sufficiente per tentare di ammazzarlo».
La frase di lancio del film su Raciti potrebb’essere infine la stessa che Erri De Luca scrisse per quello su Giuliani: «Una madre racconta la giornata breve di suo figlio, dall’uscita di casa in un mezzogiorno di luglio fino al proiettile del pomeriggio sparato in testa. Un’altra madre ascolta e registra voce, faccia, racconto. In mezzo a loro due scorrono le folle che invasero Genova per essere pietra d’inciampo alla riunione dei signori del mondo, per essere pietra d’angolo di una nuova casa-mondo». Basta sostituire Catania a Genova e tutto funzionerebbe lo stesso. Coraggio, signora, si metta al lavoro.
guarini.r@virgilio.it
E fatevi un'idea del motivo per cui uno diventa larrabbiato.
La mamma di Carlo Giuliani ora pensi a mamma Raciti
di Ruggero Guarini - lunedì 05 febbraio 2007, 07:00
Gentile senatrice Haidi Giuliani, mi consenta di sottoporle una proposta un po’ audace: inviti la regista Francesca Comencini, sua grande amica, a prendere un tè nel suo ufficio a palazzo Madama e le suggerisca, con tutto il tatto richiesto dal delicato argomento che mi permetto di prospettarle, di dedicare alla mamma di Filippo Raciti, l’agente ammazzato venerdì allo stadio Massimino di Catania, un film simile a quello con cui la medesima vivace cineasta, ormai circa sei anni fa, volle onorare il suo dolore di madre orbata del proprio eroico figliolo caduto a piazza Alimonda sul fronte della resistenza alla sbirraglia dello Stato dei padroni.
Il titolo di questo nuovo film potrebbe ricalcare fedelmente quello del film precedente. Se quello si chiamava Carlo Giuliani, ragazzo, questo potrebbe chiamarsi Il ragazzo Filippo Raciti. E come al centro di quello figurava la sua intervista, così al centro di questo dovrebbe figurare un’intervista alla mamma dell’agente siciliano. Ma forse, per imprimere anche al nuovo film lo stesso stile sentimentale e morale di quello precedente, sarebbe forse meglio che la Comencini intervistasse nuovamente lei. Giacché soltanto lei potrebbe onorare la memoria del povero Raciti con la stessa impareggiabile dolcezza con cui, in quella sua memorabile performance audiovisiva, seppe dar voce alla sua potente passione di madre politicamente turbata e commossa mediante un’impeccabile ricostruzione del pacifico percorso del suo Carlo all’interno del corteo con cui quel giorno, a Genova, lui e i suoi compagnucci del movimento antiglobale espressero la loro mansueta volontà di lotta anti-imperiale fino al momento in cui quell’angioletto venne proditoriamente assassinato dal carabiniere Placanica mentre lui tentava eroicamente di accopparlo con un estintore.
Fra l’altro molte battute di quella vecchia intervista potrebbero essere facilmente adattate al nuovo film. La più commovente di tutte potrebbe anzi restare pressoché immutata. «Si è detto – lei disse – che Carlo fosse un disadattato. Non lo era, ma anche fosse? È un motivo sufficiente per ammazzare la gente?». Dovrebbe soltanto tradurla così: «Si è detto che Filippo fosse uno sbirro. Magari lo era, ma allora? Be’, sembra che questo, per il mio Carlo, fosse un motivo sufficiente per tentare di ammazzarlo».
La frase di lancio del film su Raciti potrebb’essere infine la stessa che Erri De Luca scrisse per quello su Giuliani: «Una madre racconta la giornata breve di suo figlio, dall’uscita di casa in un mezzogiorno di luglio fino al proiettile del pomeriggio sparato in testa. Un’altra madre ascolta e registra voce, faccia, racconto. In mezzo a loro due scorrono le folle che invasero Genova per essere pietra d’inciampo alla riunione dei signori del mondo, per essere pietra d’angolo di una nuova casa-mondo». Basta sostituire Catania a Genova e tutto funzionerebbe lo stesso. Coraggio, signora, si metta al lavoro.
guarini.r@virgilio.it
mercoledì 7 febbraio 2007
Il poliziotto si chiamava Filippo
Ho ricevuto un commento da un amico, pressochè un fratello.
Lo pubblico, come è giusto che sia.
Nei prossimi giorni larrabbiato spiegherà che coltivare i risentimenti è anche un modo per conservare la memoria.
Nei prossimi giorni, perchè anche stanotte debbo lavorare.
Sinceramente avrei anche da pensare ad altro, il che non mi entusiasma però si chiama lavoro, eppure mi viene voglia di rispondere al tuo post “Carlo Federico e il poliziotto”.
Siano benedetti internet, i blog e la posta elettronica che riescono a farci magicamente interagire come due mondi lontani attraverso un codice morse, mentre ormai sono sempre più rarefatti i momenti in cui si riesce a stare insieme e parlare, ascoltare la ragione e l’emozione uscire dalle parole dell’altro.
Mi spiace “arrabbiato” ma su questa strada non riesco a seguirti. Ho riflettuto molto su quello che è successo venerdì a Catania, su quello che è stato detto, su quello che ci siamo detti. Non posso sentirmi vicino ad un modo di pensare così ottuso, che ancora una volta riduce un episodio così grave, che va ben al di là del coinvolgimento di un agente di polizia, al solito teatrino massimalista del confronto tra vite spezzate da una parte e dall’altra, che in realtà stanno dalla stessa parte, quella di un ingiustizia che non si riesce ad evitare e cui non si riesce a dare risposta.
Non posso pensare che quanto è successo ti abbia unicamente dato lo spunto per esternare la rivendicazione di altri fatti che a ragione pretendono giustizia, ma che non possono certo pretendere di averla attraverso il contrapporsi a eventi diversi, purtroppo analoghi nell’esito triste e drammatico.
Non capisco poi perché se muore un civile devi dire che è morto Carlo, Federico o Francesco, come fosse uno di famiglia, se invece muore un agente lo liquidi come “il poliziotto”. La perdita di una vita umana non può essere strumentalizzata così. E utilizzare un tono simile non fa altro che contribuire ad alimentare rancore verso un settore che, volenti o nolenti, è necessario alla vita civile della nostra società.
Ti rammento che se Rifondazione è dalla parte soprattutto dei lavoratori e delle classi più svantaggiate dovrebbe essere anche, in buona misura, dalla parte dei membri delle forze dell’ordine, che provengono spesso da famiglie con pochi mezzi in particolare del sud, che fanno un lavoro rischioso, mal pagato, sempre più vituperato. Credimi, non amo le divise o le armi, vorrei davvero poter vivere in una società in cui non ci fosse bisogno né di polizia, né di carabinieri né di esercito, ma evidentemente questa nostra società non è ancora abbastanza matura, civile, giusta affinché ciò possa realizzarsi.
Il tuo pensiero sembra rispecchiare una mentalità che è incline al muro contro muro, alla retorica giustificazione della risposta violenta come reazione sociale verso lo Stato come potere o i suoi rappresentanti (tra i quali ti ricordo ci sei anche tu). Di morte e violenza ne ho davvero abbastanza. C’è violenza nelle parole sprecate a fiumi in televisione, c’è violenza nella società che mette gli uni contro gli altri, c’è violenza nei rapporti personali e lavorativi, c’è violenza nel traffico che sta distorcendo le nostre vite ed i nostri nervi.
Si dice che ci vorrebbe una cultura civile diversa per poterci salvare da tutto questo. La cultura civile che scaturisce dal tuo pensiero e dalle tue parole mi rendo conto che non mi appartiene.
con affetto
Lo pubblico, come è giusto che sia.
Nei prossimi giorni larrabbiato spiegherà che coltivare i risentimenti è anche un modo per conservare la memoria.
Nei prossimi giorni, perchè anche stanotte debbo lavorare.
Sinceramente avrei anche da pensare ad altro, il che non mi entusiasma però si chiama lavoro, eppure mi viene voglia di rispondere al tuo post “Carlo Federico e il poliziotto”.
Siano benedetti internet, i blog e la posta elettronica che riescono a farci magicamente interagire come due mondi lontani attraverso un codice morse, mentre ormai sono sempre più rarefatti i momenti in cui si riesce a stare insieme e parlare, ascoltare la ragione e l’emozione uscire dalle parole dell’altro.
Mi spiace “arrabbiato” ma su questa strada non riesco a seguirti. Ho riflettuto molto su quello che è successo venerdì a Catania, su quello che è stato detto, su quello che ci siamo detti. Non posso sentirmi vicino ad un modo di pensare così ottuso, che ancora una volta riduce un episodio così grave, che va ben al di là del coinvolgimento di un agente di polizia, al solito teatrino massimalista del confronto tra vite spezzate da una parte e dall’altra, che in realtà stanno dalla stessa parte, quella di un ingiustizia che non si riesce ad evitare e cui non si riesce a dare risposta.
Non posso pensare che quanto è successo ti abbia unicamente dato lo spunto per esternare la rivendicazione di altri fatti che a ragione pretendono giustizia, ma che non possono certo pretendere di averla attraverso il contrapporsi a eventi diversi, purtroppo analoghi nell’esito triste e drammatico.
Non capisco poi perché se muore un civile devi dire che è morto Carlo, Federico o Francesco, come fosse uno di famiglia, se invece muore un agente lo liquidi come “il poliziotto”. La perdita di una vita umana non può essere strumentalizzata così. E utilizzare un tono simile non fa altro che contribuire ad alimentare rancore verso un settore che, volenti o nolenti, è necessario alla vita civile della nostra società.
Ti rammento che se Rifondazione è dalla parte soprattutto dei lavoratori e delle classi più svantaggiate dovrebbe essere anche, in buona misura, dalla parte dei membri delle forze dell’ordine, che provengono spesso da famiglie con pochi mezzi in particolare del sud, che fanno un lavoro rischioso, mal pagato, sempre più vituperato. Credimi, non amo le divise o le armi, vorrei davvero poter vivere in una società in cui non ci fosse bisogno né di polizia, né di carabinieri né di esercito, ma evidentemente questa nostra società non è ancora abbastanza matura, civile, giusta affinché ciò possa realizzarsi.
Il tuo pensiero sembra rispecchiare una mentalità che è incline al muro contro muro, alla retorica giustificazione della risposta violenta come reazione sociale verso lo Stato come potere o i suoi rappresentanti (tra i quali ti ricordo ci sei anche tu). Di morte e violenza ne ho davvero abbastanza. C’è violenza nelle parole sprecate a fiumi in televisione, c’è violenza nella società che mette gli uni contro gli altri, c’è violenza nei rapporti personali e lavorativi, c’è violenza nel traffico che sta distorcendo le nostre vite ed i nostri nervi.
Si dice che ci vorrebbe una cultura civile diversa per poterci salvare da tutto questo. La cultura civile che scaturisce dal tuo pensiero e dalle tue parole mi rendo conto che non mi appartiene.
con affetto
lunedì 5 febbraio 2007
Larrabbiato ringrazia
Con grande affetto tutti i compagni e le compagne che in questi giorni gli hanno manifestato la propria solidarietà e sostegno.
Le battaglie di uno sono le battaglie di tutti: grazie a Marcello, Annalisa, Alessio, Vale, Giulia, Alessandro, Gino e soprattutto ai meravigliosi Pilade ed Elena.
No pasaran!
Le battaglie di uno sono le battaglie di tutti: grazie a Marcello, Annalisa, Alessio, Vale, Giulia, Alessandro, Gino e soprattutto ai meravigliosi Pilade ed Elena.
No pasaran!
Carlo Federico ed il poliziotto
In questo clima di emergenza iniziale, dopo che un povero poliziotto è stato ucciso durante gli scontri seguiti alla partita di calcio Palermo - Catania, dopo che ancora una volta tutti implorano pene più severe, ricordo che:
a) la versione ufficiale della morte di Carlo Giuliani al G8 di Genova è che una pallottola sparata per aria da un poliziotto ha urtato un sasso lanciato da un manifestante, ha deviato ed ha fracassato la tempia di Carlo.
E nessun tg nazionale sembra scandalizzarsene.
b) Federico Aldrovandi è stato massacrato da quattro poliziotti e, non fosse stato per il coraggio e la tenacia di sua madre, la polizia locale avrebbe insabbiato tutto.
a) la versione ufficiale della morte di Carlo Giuliani al G8 di Genova è che una pallottola sparata per aria da un poliziotto ha urtato un sasso lanciato da un manifestante, ha deviato ed ha fracassato la tempia di Carlo.
E nessun tg nazionale sembra scandalizzarsene.
b) Federico Aldrovandi è stato massacrato da quattro poliziotti e, non fosse stato per il coraggio e la tenacia di sua madre, la polizia locale avrebbe insabbiato tutto.
giovedì 1 febbraio 2007
E' evidente che si tratta di un rapporto ormai concluso
Ieri sera un buon quarto d’ora del Tg1 è stato dedicato alla vicenda Veronica Lario Silvio Berlusconi, e sono contento perché ho appena pagato il canone Rai.
La signora si è offesa per le “galanterie” espresse dal consorte nei confronti di una moltitudine di signore compiacenti, nell’immediato dopo telegatti.
Ha deciso di lamentarsi con il direttore de La Repubblica, che ha pubblicato una lettera presumibilmente scritta dalla signora Lario, a cui è seguita prontamente una replica presumibilmente scritta dal signor Berlusconi, che si scusava per l’offesa arrecata.
Il teatrino sarebbe già di per sé assai disgustoso e disperante, anche senza il Sindaco di Venezia Massimo Cacciari, che si è sentito in dovere di intervenire sulla tragica vicenda.
Il parere espresso da cotanto personaggio presenta interessanti analogie con la questione Partito Democratico si Partito Democratico no.
“E’ evidente che si tratta di un rapporto ormai concluso”.
La signora si è offesa per le “galanterie” espresse dal consorte nei confronti di una moltitudine di signore compiacenti, nell’immediato dopo telegatti.
Ha deciso di lamentarsi con il direttore de La Repubblica, che ha pubblicato una lettera presumibilmente scritta dalla signora Lario, a cui è seguita prontamente una replica presumibilmente scritta dal signor Berlusconi, che si scusava per l’offesa arrecata.
Il teatrino sarebbe già di per sé assai disgustoso e disperante, anche senza il Sindaco di Venezia Massimo Cacciari, che si è sentito in dovere di intervenire sulla tragica vicenda.
Il parere espresso da cotanto personaggio presenta interessanti analogie con la questione Partito Democratico si Partito Democratico no.
“E’ evidente che si tratta di un rapporto ormai concluso”.
Il giorno della memoria
Lo sterminio non fu follia, o un semplice incidente di percorso nella storia illuminata della civiltà occidentale.
Il genocidio non fu semplicemente un problema ebraico, o un evento specifico della storia ebraica.
Il genocidio fu pensato e messo in atto nell’ambito della nostra società razionale moderna, nello stadio avanzato della nostra civiltà e al culmine dello sviluppo culturale umano: ecco perché è un problema di tale società, della nostra civiltà e della nostra cultura.
Occorre rovesciare l’interpretazione del genocidio, e considerarlo non una ferita o una malattia della nostra civiltà, ma il suo prodotto più coerente.
Interpretarlo – al contrario - come pura razionalità, ovvero l’applicazione efficace dei mezzi rispetto ad un fine: il massacro di ebrei, rom, omosessuali.
Esistevano i ragionieri dello sterminio, coloro che tenevano i registri, che ordinavano lo zyklon b, che gestivano i trasporti: lo sterminio era una vera e propria industria, con l’imperativo – tutto moderno – dell’efficacia e dell’efficienza.
Il genocidio fu Hitler, ma fu soprattutto Eichman: ce lo ha insegnato Hannah Arendt, in tutti i suoi scritti, ne “La banalità del male”.
Lo sterminio fu un evento, paradossalmente, normale, il prodotto specifico dell’incontro tra le vecchie tensioni che la modernità aveva ignorato e mancato di risolvere, e i potenti strumenti di azione razionale ed efficiente creati dallo sviluppo della modernità stessa.
Ho la convinzione che l’esperienza dello sterminio contenga alcune informazioni di fondamentale importanza sulla società di cui siamo membri.
In qualunque epoca, chi lotta per affermare i diritti delle minoranze lotta per evitare che lo sterminio si ripeta, considerando lo sterminio una eventualità sempre possibile da evitare con la lotta per il progressivo ampliamento dei diritti di tutti i cittadini.
Chi, ancora oggi, si danna per perseguitare le minoranze, ebrei, immigrati, rom, omosessuali eccetera, chi li vorrebbe senza diritti, pura vita, si muove lungo il filo continuo elettrificato dalla logica dello sterminio.
Talmente immenso è stato lo sterminio degli ebrei che per molto tempo degli altri si è persa la memoria: e non è un caso che siano proprio i vari Centri di Documentazione ebraica a ricordare che se lo sterminio fu prevalentemente contro gli ebrei, altre furono le categorie perseguitate: gli oppositori politici, comunisti in primo luogo, gli omosessuali, i rom.
Furono 500000 i rom, i “figli del vento” sterminati nei lager, allo scopo dichiarato di sradicare l’istinto nomade, identificato dall’eugenetica paranoide fascista con il disordine, la trasgressione, la commistione del sangue e la degradazione del costume.
In un suo recente intervento Marcello Pezzetti, del Centro di documentazione ebraica Contemporanea di Milano, ci racconta di un episodio avvenuto nel campo di sterminio di Birkenau.
Venne deciso di liquidare il settore zingari nel maggio 1944. I circa 4000 rom sopravvissuti avrebbero dovuto essere avviati, in un solo colpo, alle camere a gas. E fu allora che avvenne l’incredibile: gli zingari resistettero. A mani nude, qualcuno armato del solo coltellino di latta improvvisato nelle baracche, contrastarono le SS. I pochi sopravvissuti raccontano che erano le madri in prima fila, a difendere con le unghie e con i denti i loro bambini. Fu – dice Pezzetti – qualcosa di straordinario. Qualcosa di cui si dovrebbe sempre parlare, una delle pochissime rivolte in un campo di sterminio.
L’annientamento, purtroppo, fu solo temporaneamente sospeso: due mesi e mezzo più tardi 2847 rom verranno passati per il camino nel crematorio n.5.
A fronte di questo, nonostante lo sterminio di 500.000 rom, nessuno di loro venne mai chiamato a testimoniare nei processi ai gerarchi nazisti, neppure a Norimberga. E quando in Germania alcun sopravvissuti si decisero a chiedere un risarcimento, questo fu loro negato con il pretesto che le persecuzioni subite non erano motivate da ragioni razziali ma dalla loro “asocialità”.
Noi siamo qui anche per colmare queste ingiustizie, e non solo per celebrare il giorno, il 27 gennaio 1945 in cui le truppe dell’Armata Rossa arrivarono ai cancelli di Auschwitz:
Le stesse truppe che, resistendo a Stalingrado, furono determinanti nella sconfitta del nazifascismo: fu la vittoria dell’umanità contro la barbarie.
Il genocidio non fu semplicemente un problema ebraico, o un evento specifico della storia ebraica.
Il genocidio fu pensato e messo in atto nell’ambito della nostra società razionale moderna, nello stadio avanzato della nostra civiltà e al culmine dello sviluppo culturale umano: ecco perché è un problema di tale società, della nostra civiltà e della nostra cultura.
Occorre rovesciare l’interpretazione del genocidio, e considerarlo non una ferita o una malattia della nostra civiltà, ma il suo prodotto più coerente.
Interpretarlo – al contrario - come pura razionalità, ovvero l’applicazione efficace dei mezzi rispetto ad un fine: il massacro di ebrei, rom, omosessuali.
Esistevano i ragionieri dello sterminio, coloro che tenevano i registri, che ordinavano lo zyklon b, che gestivano i trasporti: lo sterminio era una vera e propria industria, con l’imperativo – tutto moderno – dell’efficacia e dell’efficienza.
Il genocidio fu Hitler, ma fu soprattutto Eichman: ce lo ha insegnato Hannah Arendt, in tutti i suoi scritti, ne “La banalità del male”.
Lo sterminio fu un evento, paradossalmente, normale, il prodotto specifico dell’incontro tra le vecchie tensioni che la modernità aveva ignorato e mancato di risolvere, e i potenti strumenti di azione razionale ed efficiente creati dallo sviluppo della modernità stessa.
Ho la convinzione che l’esperienza dello sterminio contenga alcune informazioni di fondamentale importanza sulla società di cui siamo membri.
In qualunque epoca, chi lotta per affermare i diritti delle minoranze lotta per evitare che lo sterminio si ripeta, considerando lo sterminio una eventualità sempre possibile da evitare con la lotta per il progressivo ampliamento dei diritti di tutti i cittadini.
Chi, ancora oggi, si danna per perseguitare le minoranze, ebrei, immigrati, rom, omosessuali eccetera, chi li vorrebbe senza diritti, pura vita, si muove lungo il filo continuo elettrificato dalla logica dello sterminio.
Talmente immenso è stato lo sterminio degli ebrei che per molto tempo degli altri si è persa la memoria: e non è un caso che siano proprio i vari Centri di Documentazione ebraica a ricordare che se lo sterminio fu prevalentemente contro gli ebrei, altre furono le categorie perseguitate: gli oppositori politici, comunisti in primo luogo, gli omosessuali, i rom.
Furono 500000 i rom, i “figli del vento” sterminati nei lager, allo scopo dichiarato di sradicare l’istinto nomade, identificato dall’eugenetica paranoide fascista con il disordine, la trasgressione, la commistione del sangue e la degradazione del costume.
In un suo recente intervento Marcello Pezzetti, del Centro di documentazione ebraica Contemporanea di Milano, ci racconta di un episodio avvenuto nel campo di sterminio di Birkenau.
Venne deciso di liquidare il settore zingari nel maggio 1944. I circa 4000 rom sopravvissuti avrebbero dovuto essere avviati, in un solo colpo, alle camere a gas. E fu allora che avvenne l’incredibile: gli zingari resistettero. A mani nude, qualcuno armato del solo coltellino di latta improvvisato nelle baracche, contrastarono le SS. I pochi sopravvissuti raccontano che erano le madri in prima fila, a difendere con le unghie e con i denti i loro bambini. Fu – dice Pezzetti – qualcosa di straordinario. Qualcosa di cui si dovrebbe sempre parlare, una delle pochissime rivolte in un campo di sterminio.
L’annientamento, purtroppo, fu solo temporaneamente sospeso: due mesi e mezzo più tardi 2847 rom verranno passati per il camino nel crematorio n.5.
A fronte di questo, nonostante lo sterminio di 500.000 rom, nessuno di loro venne mai chiamato a testimoniare nei processi ai gerarchi nazisti, neppure a Norimberga. E quando in Germania alcun sopravvissuti si decisero a chiedere un risarcimento, questo fu loro negato con il pretesto che le persecuzioni subite non erano motivate da ragioni razziali ma dalla loro “asocialità”.
Noi siamo qui anche per colmare queste ingiustizie, e non solo per celebrare il giorno, il 27 gennaio 1945 in cui le truppe dell’Armata Rossa arrivarono ai cancelli di Auschwitz:
Le stesse truppe che, resistendo a Stalingrado, furono determinanti nella sconfitta del nazifascismo: fu la vittoria dell’umanità contro la barbarie.
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