E’ buona norma confessare un pregiudizio prima di iniziare l’analisi: credo che – con buona probabilità – dio non esista e che le religioni siano un affascinante artificio edificato dagli uomini per rendere più tollerabile la morte, di sé e delle persone amate, e la terribile prospettiva del nulla, così terribile che è persino impensabile la sua rappresentazione.
Ecco quindi venire in soccorso la fantasia, la capacità creativa dell’uomo che è in effetti qualcosa di divino senza dio.
Vi confesso tuttavia che spero di sbagliarmi, dato che la prospettiva di vivere in eterno, sia in paradiso che all’inferno (non al purgatorio che è troppo di centro), mi appare tutto sommato stimolante.
Partirei da una ricognizione dell’esistente, ovvero di ciò che sono oggi le religioni presenti in Occidente, quelle maggioritarie, quelle di cui ci “interessa” il dialogo: cattolicesimo ed islam.
I buddisti infatti, che pure mi stanno simpatici perché non rivendicano alcuna egemonia (e Pomaia è un luogo incantevole dove si possono gustare ottimi pranzi vegetariani), ed i Valdesi a cui per spocchia (e vicinanza) intellettuale destino il mio otto per mille, sono poco più che associazioni del dopolavoro ferroviario, mentre gli ebrei – già storicamente poco presenti in Italia – sono stati decimati dal nazifascismo e sono oggi poche migliaia di persone, buone per essere tirate da una parte o dall’altra a seconda di come la si pensi sullo Stato di Israele.
Sia il cattolicesimo che l’islam perseguono, ritengo consapevolmente (a livello di elites), un progetto di dominazione - dei corpi, delle idee, delle società - a cui ritengo necessario opporre la forza e la resistenza del pensiero laico e progressista.
Il dialogo tra cattolicesimo ed islam è, in questa particolare fase storica, il dialogo tra due totalitarismi, e si vi è salvezza per gli uomini e per le donne di questo mondo sta oggi nel rifiutarli entrambi, sostituendo nella pratica al dialogo interreligioso il dialogo tra persone libere (come può essere una persona libera oggi, ovvero all’interno di un quadro economico ed ideologico che la condiziona pesantemente).
Intendiamoci, non sto accusando i credenti di queste confessioni di essere nella loro totalità dei pericolosi reazionari: esistono molte persone sinceramente progressiste e nello stesso tempo profondamente religiose, con cui è piacevole intrattenersi e coltivare la speranza di una riforma.
Ma una rondine non fa primavera e di certo i messaggi provenienti dalle gerarchie cattoliche ed islamiche possono essere ricompresi nella categoria dei sistemi di pensiero reazionari (oggettivamente alleati dei movimenti politici schierati a destra).
Le comunità di base cattoliche, e gli islamici progressisti – che pure ci sono – sono del tutto minoritari e qualche “prete di frontiera” (alla Zappolini o alla Santoro per prendere due esempi a noi vicini) non valgono la brutale repressione e la conseguente sconfitta del movimento della teologia della liberazione.
Riporto, come pretesto ai fini del nostro discorso, uno dei passaggi più significativi dell’intervento di papa Ratzinger in occasione della “Giornata mondiale della pace”, celebratasi il 1 gennaio 2007:
“Il diritto alla vita e alla libera espressione della propria fede in Dio non è in potere dell’uomo. La pace ha bisogno che si stabilisca un chiaro confine tra ciò che è disponibile e ciò che non lo è: saranno così evitate intromissioni inaccettabili in quel patrimonio di valori che è proprio dell’uomo in quanto tale.
Per quanto concerne il diritto alla vita, è doveroso denunciare lo scempio che di essa si fa nella nostra società: accanto alle vittime dei conflitti armati, del terrorismo e di svariate forme di violenza, ci sono le morti silenziose provocate dalla fame, dall’aborto, dalla sperimentazione sugli embrioni e dall’eutanasia”.
E’ chiara – e inaccettabile - l’analogia esplicita che si stabilisce tra una donna che decide di non far nascere il proprio figlio (o Piergiorgio Welby che implora di poter morire) ed un terrorista tagliagole (tutti condannati, implicitamente, alla dannazione), ed è difficile non notare l’intima contraddizione con il passaggio successivo in cui il “pastore tedesco” si sofferma sulla condizione femminile, riservando un attacco neppure troppo nascosto all’islam:
“Penso allo sfruttamento di donne trattate come oggetti e alle tante forme di mancanza di rispetto per la loro dignità; penso anche - in un contesto diverso – alle visioni antropologiche persistenti in alcune culture, che riservano alla donna una collocazione ancora fortemente sottomessa all’arbitrio dell’uomo, con conseguenze lesive per la sua dignità di persona e per l’esercizio delle stesse libertà fondamentali”.
Il controllo sul corpo della donna, la colpevolizzazione e la condanna della libertà individuale di per sè, rendono al contrario sinistramente simili il cattolicesimo e l’islam odierni.
Nell’islam è tutto apparentemente più evidente: il corpo velato della donna cosa altro è se non il segno più visibile della dominazione maschile e dell’imposizione di una religione patriarcale?
Su questo tema esiste un dibattito piuttosto ricco, di cui è impossibile dare conto nel poco spazio di questo intervento.
Vi è chi sostiene che sia del tutto legittimo che una donna decida di coprirsi parti del proprio corpo e che l’attenzione ossessiva nei confronti del problema del velo celi intenti discriminatori nei confronti degli immigrati oggi presenti nei paesi europei.
La vista di una suora – in effetti - non sembra turbarci più di tanto, (eppure ha il corpo ed una parte del volto nascosti) e non suscita appassionati dibattiti, e di certo vi è un’evidente disparità di trattamento nei confronti delle donne che liberamente abbracciano i precetti della religione islamica.
Sono argomentazioni difficilmente contestabili e per molti versi condivisibili.
Tuttavia quando l’imam locale (e quindi non un semplice fedele ma il “colto” rappresentante locale della comunità islamica) in conversazione privata mi rivela che sua moglie indossa “liberamente” il burqa per proteggersi dagli sguardi degli altri uomini, e dalla possibilità di una violenza suscitata dallo scatenamento dei “naturali” istinti maschili alla vista di un ginocchio scoperto, confesso il mio turbamento, e mi chiedo quanto libera sia quella libera scelta, e se al contrario la libertà dalla religione (in questo caso islamica) non sia la condizione primaria per una liberazione che sia veramente tale.
Che dire poi dell’atteggiamento nei confronti degli omosessuali?
In alcuni paesi islamici se sorpresi in “pratiche” omosessuali si può essere condannati a morte.
La chiesa cattolica si “limita” a definire contro natura i rapporti tra persone dello stesso sesso, invitando i poveri gay a vivere privatamente e con riserbo la loro malattia, astenendosi da pratiche sessuali e sopportando cristianamente la sventura loro occorsa, (in questi giorni il Vaticano si è schierato addirittura contro il serial televisivo “Un medico in famiglia” a causa della presenza di una “normalissima” coppia gay).
Sorprenderebbe quindi, date le molteplici similitudini, un’eventuale mancanza di dialogo tra le due principali religioni monoteiste concorrenti.
Sono convinto invece che quello che si sta svolgendo sotto i nostri occhi sia uno stucchevole gioco delle parti e che attraverso il dialogo interreligioso (che come tutti i dialoghi è composto da momenti di scontro, di confronto e di accordo) si giungerà infine ad un’equa e concordata ripartizione delle anime (e degli interessi) secondo le zone geografiche, come ai tempi della guerra fredda e della contrapposizione tra le due potenze nucleari, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica.
E’ un gioco che non mi piace e a cui non intendo partecipare.
Il dialogo interreligioso, parliamoci chiaro, è diventato molto di moda qui da noi anche in seguito alla presenza in Italia di numerosi immigrati musulmani.
In passato illustri prelati quali il cardinale Biffi hanno teorizzato la via preferenziale per gli immigrati di religione cattolica discettando sulla presunta non integrabilità dei cittadini di religione musulmana.
Il fatto è che molti immigrati “scoprono” la “loro” religione, la religione degli antenati, proprio una volta giunti in Italia.
Partono indifferenti alla questione religiosa e si trasformano in uomini di fede una volta giunti a destinazione (paradossalmente, si potrebbe affermare, “divengono” refrettari all’integrazione).
La chiusura all’interno della comunità nazionale di riferimento cementata da un comune credo religioso è l’esito più probabile dell’impatto difficoltoso con la società di approdo, impatto oggi “mediato” dalla crisi del welfare nazionale, dalle contraddizioni del modo di produzione dominante (precarietà, disoccupazione, sottoccupazione) dalla forza di ideologie xenofobe propagandate dai vari imprenditori dell’odio (partiti politici e mezzi di comunicazione di massa).
La religione è un patrimonio identitario sempre disponibile, pronto ad essere utilizzato e re-inventato, e funzionale in questo caso ad un modello di integrazione subalterna.
Accettando la logica dell’integrazione (e del dialogo) tra culture, comunità e - in definitiva - tra diverse religioni a rimetterci sono gli individui costretti in un’identità monolitica attraverso cui rivendicare i propri diritti ed il proprio inserimento.
Si rinuncia alla pluralità della propria identità, alla molteplicità delle proprie appartenenze, per abbracciare un unicum totalitario e monolitico, soprattutto se questo è l’unico modo disponibile per rivendicare i propri diritti.
Ma è un percorso in cui si perde qualcosa.
A rimetterci sono i singoli individui, abbracciati sino a soffocare da vescovi ed imam.
A rimetterci sono le nostre società, che si segmentano progressivamente in varie religioni-culture-comunità scarsamente democratiche al loro interno, disposte gerarchicamente, il cui inter-dialogo è condotto da ristrette elites autonominatesi tali, depositarie della verità, che agiscono in nome e per conto dei loro fedeli.
Le osservazioni a tal proposito di Amartya Sen risultano, in conclusione, decisive (A.Sen, “Identità e violenza”, Laterza, 2006):
“Il mondo (..) è visto (..) come una federazione di religioni o di civiltà, ignorando così tutti gli altri modi in cui gli esseri umani considerano se stessi (..).
La stessa persona può essere, senza la minima contraddizione, di cittadinanza americana, di origine caraibica, con ascendenze africane, cristiana, progressista, donna, vegetariana, maratoneta, storica, insegnante, romanziera, femminista, eterosessuale, sostenitrice dei diritti dei gay e delle lesbiche, amante del teatro, militante ambientalista, appassionata di tennis, musicista jazz (..).
Ognuna di queste collettività, a cui questa persona appartiene simultaneamente, le conferisce una determinata identità. Nessuna di esse può essere considerata l’unica identità o l’unica categoria di appartenenza della persona(..).
Quando le prospettive di buoni rapporti tra esseri umani diversi sono viste (come sempre più spesso accade) principalmente in termini di “amicizia tra civiltà” o di “dialogo tra gruppi religiosi”, o di “relazioni amichevoli tra comunità diverse” (ignorando i moltissimi, diversi modi in cui gli individui si relazionano fra di loro), i progetti per la pace vengono subordinati a un approccio che “miniaturizza” gli esseri umani(..).
La speranza di armonia nel mondo contemporaneo risiede in gran parte in una comprensione più chiara delle pluralità dell’identità umana, e nel riconoscimento che tali pluralità sono trasversali e rappresentano un antidoto a una separazione netta lungo una linea divisoria fortificata ed impenetrabile”.
domenica 11 febbraio 2007
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